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lunedì 28 maggio 2018

L’uomo è libertà

L’ambiguità contro l’assurdità – contro la vulgata dell’esistenzialismo come filosofia dell’assurdo: “Dichiarare assurda l’esistenza significa negare che essa possa darsi un senso; dire che è ambigua significa asserire che il senso non è mai fissato e deve continuamente conquistarsi”. Nel quadro della libertà dell’individuo: “L’individuo come tale è uno dei fini ai quali deve destinarsi la nostra azione”. Di più. “La libertà è l’unica realtà che io non possa trascendere” - da cui non possa liberarmi. Di “ognuno tra gli altri”, che restano costitutivi del suo “si”: “Un uomo che fosse l’unico sopravvissuto a un cataclisma universale dovrebbe sforzarsi, come Ezechiele, di risuscitare l’umanità, o non avrebbe più che da morire”. Una morale del’ambiguità come libertà, anche da se stessi.
"Nell'inverno del 1946 Camus mi aveva chiesto, per non so più quale collana, uno studio sull’azione", scrive Simone de Beauvoir nella sua opera autobiografica “La forza delle cose”, del 1963. Lei scrisse “Per una morale dell’ambiguità”, arrischiandosi con fiducia dopo aver riuscito poco prima, nel 1944, il trattatello “Pirro e Cinea”, e poi li pubblicò autonomamente insieme – insieme sono qui riproposti. Ne “La forza delle cose”, il selfie di quindici anni dopo, 1963, si critica: “L'accoglienza riservata a «Pirro e Cinea» m’incoraggiava a tornare alla filosofia. D’altra parte quando leggevo Lefebvre, Naville, Mounin, sentivo il desiderio di replicare. Incominciai così, in parte contro di loro, «Per una morale dell’ambiguità». Di tutti i miei libri è quello che oggi mi irrita di più. La parte polemica mi sembra valida. Certo, ho perduto del tempo a combattere obiezioni futili; ma allora l’esistenzialismo veniva considerato come una filosofia nichilista, miserabilista, frivola, libertina, disperata, ignobile: bisognava pur difenderlo”. E invece regge, è ottima lettura.  
Contro i valori eterni
Parte da una critica ai “valori eterni” dell’“ideologia borghese”, dei comunisti (allora, 1947) compresi, contro “tutti gli idealismi e i misticismi”. Vuole essere irritante, ma procede con acume. Fa un quadro dell’esistenzialismo molto meno “ambiguo” dell’originale, di Sartre che disambiguava Heidegger. Che, avviandosi alla conclusione, schematizza così: “Il bene di un individuo o di un gruppo di individui merita di essere assunto come un fine assoluto della nostra azione; ma non non siamo autorizzati a decidere a priori di questo bene”. La libertà è il tramite: “Ogni uomo necessita della libertà degli altri uomini” – lontano dalle “Porte chiuse” di Sartre, 1944, “l’inferno sono gli altri”. Da Hegel – “ogni coscienza persegue la morte delle altre” – a una morale della solidarietà: “L’uomo non può trovare una giustificazione della propria esistenza se non nella esistenza degli altri uomini”.
La morale si fa strada facendo. Questa non è una novità, meno che mai un’esclusiva. Meno vera la successive riserva: “In una maniera a mio avviso convincente”, ricorderà del saggio, “ho criticato l’ingannevole mito di una umanità monolitica di cui fanno uso gli scrittori comunisti - spesso senza confessarlo - volendo ignorare la morte e il fallimento; ho indicato le antinomie dell'azione, la trascendenza indefinita dell’uomo che si oppone alla sua esigenza di recupero, l’avvenire al presente, la realtà collettiva all’interiorità di ognuno; riprendendo il dibattito, allora così scottante, sui mezzi e sui fini, ho distrutto alcuni sofismi”. Ma dopo aver quasi allogato Marx tra gli esistenzialisti, in casa  insomma: l’“impegno”, che pure sa tanto di borghese valore eterno - cioè lo schieramento con il partito comunista Francese, già allora, ancora a ridosso della guerra, urgeva, per quanto ambiguamente.
Un terzo tema qui sollevato invece rivendicherà nel 1963, della libertà intellettuale, anche dentro l’“impegno”. Un dibattito che in Italia si sarebbe esteso e rafforzato subito dopo questo “Morale dell’ambiguità” con la pubblicazione dei “Quaderni del carcere” di Gramsci a partire dal 1948, con la nozione di egemonia:“Sul ruolo che hanno gli intellettuali in seno a un regime da loro approvato, ho sollevato dei problemi ancor oggi attuali."
Contro lo spirito di serietà
De Beauvoir comincia argomentando contro lo “spirito di serietà”, che oggettivizza, mentre “senza di me”, dell’individuo, “non esistono valori precostituiti,  la cui gerarchia si impone alle mie decisioni”. È “l’errore di Kant”: “Non esiste cielo nel quale si compia la riconciliazione dei giudizi umani”. Nell’alveo di Sartre, cioè di Heidegger, che l’uomo dice “un essere che si fa mancanza d’essere, affinché vi sia dell’essere”. Che vive – è – in quanto accumula esperienza-esistenza.
Con la citica giusta di Hegel, alla morale della Totalità, dell’annullamento nello Stato – “lo Spirito è inquietudine”. Una denuncia dello stalinismo, nel 1947. E una presentazione dell’esistenzialismo di Sartre. Che ha presentato Heidegegr, ma costringendolo al recupero del Descartes rifiutato, con orrore, proprio quello del “Cogito. Ergo sum!”. Attraverso Kant, Fichte, e lo stesso Hegel – e fino a Marx, impresa spericolata (“del resto, in pratica, il marxismo non nega sempre la libertà”…). Contro ogni logica di asservimento, per quanto utile, o necessaria, o buona. Dello schiavo “protetto” dal padrone come della logica del campo di concentramento - “Il modo più odioso per punire un uomo è costringerlo ad atti ai quali si nega un senso… Nello scorso mese di settembre, in Italia sono scoppiate rivolte perché si adibivano i disoccupati a rompere pietre che non servivano a nulla”.
Con alcune categorie filosofiche applicate alla letteratura. Il nichilista, Drieu. Il surrealista – “oggi in Breton non vi è più nulla di distruttivo: è un Papa”. L’avventuriero: Don Giovanni, ma anche il fascista che all’improvviso è comunista, egualmente convinto. E con un tentativo profuso, ma d’improvviso abbandonato, di categorizzare un Sotto-uomo – in antitesi a Nietzsche, al Super-uomo? La categoria di Céline, non citato, tratteggia come “l’uomo serio”, il filisteo dei “valori eterni”, tipo “pericoloso” che ragiona in termini totalitari.
Perché fare
Heideggeriana (quanto per l’influenza di Sartre?), secondo il principio che è l’esistenza che definisce l’essenza – o, come dice Dostoevskij, che “ognuno è responsabile di tutti, di fronte e tutti”. Ne l’io né l’altro sono, essi “sono e sono altro”, hanno “l’infinità della trascendenza che continuamente può allontanare l’orizzonte verso il quale essa si slanci”. Della trascendenza d a sé, della fuoriuscita dall’io. Ma contro Heidegger, dell’“essere-per-la-morte”. Con lo stesso Heidegger (quanto in autonomia da Sartre?), che “per l’uomo non vi è interiorità, la sua soggettività si rileva solo per mezzo di un impegno nel mondo oggettivo”: Heidegger non può annullare questo mondo: “Le esitazioni di Heidegger circa il grado di realtà della esistenza inautentica hanno la loro origine in questo sofisma”.
Non manca la professione di fede politica, contro i “valori eterni” dell’“ideologia borghese”. E “tutti gli idealismi e i misticismi che antepongono una Forma all’uomo stesso”. Contro il borghese “spirito di serietà” e per il conflitto di classe. Ma con parsimonia. Anche perché è già avvertita, già nel 1946 si sapeva, dello stalinismo, che denuncia con piena cognizione. “Il bene di un individuo o di un gruppo di individui merita di essere assunto come un fine assoluto della nostra azione”, è il succo dell’argomentazione, e dell’etica. Che si dice “ambigua” perché aperta, indefinita, in fieri con l’esistenza – “trascendente” ogni ipostatizzazione. Di più: “A dire il vero, non siamo mai autorizzati im anticipo a nessuna condotta, e una delle conseguenze concrete della morale esistenzialistica è il rifiuto di tutte le giustificazioni preliminari che si potrebbero ricavare dalla civiltà, dall’età, dalla cultura; è il rifiuto di ogni principio di autorità”. Neandertal? Non proprio: “Sin dalle origini l’esistenzialismo si è definito come una filosofia dell’ambiguità”. Una filosofia che si vuole inteterminante. La morale, certo, presuppone l’ambiguità – altrimenti non c’è, non essendoci scelta: “A Dio non si propone una morale”.
Uno scavo che finisce in una fossa, rischia:: l’insignificanza dell’uomo, dell’esistente. “Pur moltiplicando in migliaia di esemplari questa meschina esistenza, la sua insignificanza rimane: anche i matematici ci insegnano che lo zero moltiplicato per qualsiasi numero finito rimane zero”. Che però è la percezione volgare dell’esistenzialismo, contro la quale si è indotta a scrivere.
“Pirro e Cinea”, 1944, in piena occupazione “felice”, è una riflessione sullo "Straniero" di Camus, 1940 - e cioè sull’“Ecclesiaste” di san Girolamo, “vanità delle vanità e tutto è vanità”: perché fare (imparare, viaggiar e, operare….)? È articolato per temi: l’istante, l’infinito, Dio, l’umanità, la situazione, la dedizione, la comunicazione, l’azione. Concludendo alla necessità del fare, contro l’inerzia del “cinismo”.
L’infinito è tema che oggi si ripropone, nel dibattito sull’immortalità, il prolungamento della vita. La finitezza è l’infinito dell’uomo, argomenta de Beauvoir: “La finitezza dell’uomo non è subita ma voluta: la morte non ha qui quella importanza che le è spesso attribuita. Non è perché muore che l’uomo è finito. La nostra trascendenza si definisce concretamente al di qua o al di là della morte”.
Simone de Beauvoir, Per una morale dell’ambiguità, SE, pp. 132 € 18

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