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venerdì 2 agosto 2019

Letture - 388

letterautore


Fake news – È sempre più sinonimo di “social”. Carlo Ginzburg ne trova l’anticipazione nel “Principe” di Machiavelli, al cap. XVIII: “El vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa, e nel mondo non è se non vulgo”.

Flaiano – Curiosa “La solitudine del satiro”, e la frequentazione che la stessa raccolta documenta dei caffè alla moda, Rosati eccetera, con Moravia, Carlo Levi, Antonioni, De Sica, Pasolini, Arbasino, dei festival di Venezia, con feste, e delle presentazioni di libri. Nonché con Fellini, che non andava ai caffè ma col quale Flaiano collaborò molto, per  cose importanti.
L’isolamento era politico, cosa che allora contava. Flaiano non era comunista e non era democristiano, e probabilmente non era in sintonia con lo stesso Pannunzio, col quale faceva “Il Mondo” – una posizione che sullo stesso giornale così spiegava nel 1956, sotto il titolo “Lettera al Direttore”: “Io dunque, limitandomi ad un culto privato della Libertà, non sono inserito nei miei tempi”. Si era soli all’epoca se non si era di un gruppo politico, influente. Flaiano come Fellini non ne faceva parte, e li prendeva in giro, ma Fellini era estroverso.

Natalia Ginzburg – “Al tempo di Natalia Ginzburg la letteratura italiana era prevalentemente un club maschile, Perciò lei voleva scrivere come un uomo”. Così Joan Acocella “ripropone” Natalia Ginzburg sul “New Yorker”.

Ironia – L’italiano ne è incapace. Di praticarla sì, di capirla no? Se letta. Maria Corti lo sanciva, seppure interrogativamente, a conclusione della lunga introduzione alle opere di Flaiano in edizione Bompiani, al volume “Scritti postumi”, a proposito dell’isolamento perdurante dello scrittore a quindici anni dalla morte: “Che la ragione derivi sempre, come negli anni Cinquanta, da qualcosa che è essenziale e tipico della mentalità italiana, l’allarmante incapacità di cogliere e assimilare ironia e satira nei propri riguardi”. In una con la scarsezza, in Italia, di “memorialisti ironico-satirici”. Che non si direbbe: non c’è probabilmente lingua più ironica e satirica dell’italiano, di un’ironia e satira di più largo uso nella parlata quotidiana o popolare. Anche la tradizione letteraria, di ironia e satira, non è male. Fino a Manzoni, nel pieno del serioso Ottocento, con quei “Promessi sposi” che Pirandello pone a pilastro, col “Don Chisciotte”, dell’umorismo. E poi nel Novecento, tra Svevo, Gadda, Savinio, lo stesso Sciascia, non ché in un autore di grande popolarità quale Camilleri. Ma, è vero, non c’è attenzione, o capacità o interesse di lettura, nella critica. A parte  Walter Pedullà, e Beniamino Placido a suo tempo, chi altro?

Leopardi – Leopardi romanziere mancato è nota tesi di Calvino, su suggerimento di Giulio Bollati, di Leopardi cultore. In un testo del 1953, “Mancata fortuna del romanzo italiano”, scritto per la Rai che non lo mandò mai in onda, Calvino include Leopardi tra i “romanzieri” italiani, seppure mancato. Pubblicando poi il testo, aggiunse in nota un “taglio” che aveva in un primo tempo effettuato “per non anticipare il tema di un saggio che Bollati aveva in mente di scrivere”, in cui si chiede retoricamente chi avrebbe potuto-dovuto essere il padre del romanzo italiano, Alfieri, Foscolo, Porta, Belli, Rossini, Verdi, e si risponde: “Forse nessuno di questi. Per me il padre ideale del nostro romanzo sarebbe stato uno che parrebbe più lontano di ogni altro dalle risorse di quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano a Manzoni: la tensione avventurosa, l’assidua ricerca sociologica introspettiva, il bisogno di dare nomi e volti di personaggi ai sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo. E poi la lingua: la via ch’egli indicò fu quella dei massimi effetti coi minimi mezzi, che è sempre stato il gran segreto della prosa narrativa”. Per “avventure” Calvino ricorda l’islandese solitario tra le foreste dell’Africa, la notte tra i cadaveri nello studio di Federico Ruysch, quella sulla tolda di Colombo. “Ma è soprattutto di Leopardi il racchiudere  nel giro d’un luogo noto, d’un paese, d’un ambiente, il senso del mondo”.
Salvo poi, nei tanti occasionali ritorni su Leopardi, metterne in rliievo la curiosità e la mentalità scientifiche, di un “Leopardi copernicano”, che si attiene alla verità della cosa, alla prova.

#metoo – Per fare Montalbano, spiega il regista Sironi in “Camilleri sono”, la raccolta di testimonianze e saggi in onore dello scrittore che “Micromega” aveva pubblicato un anno fa e riedita in morte, erano rimasti in lizza tre attori. Ma uno dei tre non fece il provino: “Uno dei tre, che come fisico assomigliava un po’ al commissario Ingravallo (a Pietro Germi in “Un maledetto imbroglio”, il film tratto dal “Pasticciaccio” di Gadda, nel quale Camilleri identificava allora il suo Montalbano, n.d.r.), non venne perché la moglie la sera prima gli aveva dato un pugno in un occhio e il giorno dopo aveva l’occhio nero”. Chi era non importa – Sironi non lo dice: “Si dice che fosse Giancarlo Giannini, ma non era lui” – ma avrebbe fatto un’altra vita.

Nievo – È il beniamino di Calvino, che più volte lo ricorda con grandi elogi. Quello più entusiasta lo fa parlando di Manzoni: “Pesò pure su chi romanziere era davvero,  come il Nievo, che s’imbrogliò nelle panie moraleggianti e linguistiche manzoniane; lui che conosceva cos’era avventura, e storia familiare, e grandezza e decadenza sociale, e vita umana e presenza della donna nella vita dell’uomo, e paesaggio natale, e trasfigurazione della memoria in continua presenza reale: il generoso, il giovane il fluviale Nievo” – nello scritto del 1953 rimasto inedito (ora in “Mondo scritto e mondo non scritto”), “Mancata fortuna del romanzo italiano”.

Pistacchi – È la proteina vegetale che fa così brillanti i persiani e i siciliani? Si direbbe, a credere alla “leggenda” di cui in Francis R. Burton, “L’Oriente islamico”, p. 183, secondo la quale “prima dei giorni del faraone (quello di Mosè), gli Egiziani si nutrivano di pistacchi, un alimento che li rendeva vivaci e arguti”. Il Faraone cattivo li passò ai fagioli, e in effetti gli egiziani hanno perso in vivacità e arguzia.  

Romanzo – È storico e non può essere geografico per Calvino, ostile al localismo e principalmente a Verga, - al “regionalismo descrittivo, una piaga che ancor oggi funesta la nostra narrativa”. Era di questo avviso nel 1953, prima che, con le fiabe, si avvicinasse ai luoghi e ai gerghi. Ma mantenne sempre la pregiudiziale, contro il linguaggio “orale”, mimetico – secondo Camilleri, “Camilleri sono”, 19, “l’oralità detestava anche perché lui non sapeva parlare”.
Calvino sapeva anche perché i luoghi vanno esclusi: “Il vero romanzo vive nella dimensione della storia, non della geografia: è avventura umana nel tempo, e i luoghi – i luoghi il più possibile precisi e amati – gli sono necessari come concrete immagini del tempo; ma porli come contenuto del romanzo, questi luoghi, e gli usi locali, e il «vero volto» di questa o quella città o popolazione, è un controsenso” – Macondo per esempio, o la contea immaginaria del Sud di Faulkner, e la stessa Vigàta perché no?

Altra singolare veduta d Calvino in materia è che il romanzo è ottocentesco - “Sorte del romanzo”, 1957 (ib.). Poi ci sono Thomas Mann, “ma sporgendosi da un’estrema ringhiera dell’Ottocento”, il racconto “Il vecchio” di Faulkner, e Brecht - “ma un Brecht della narrativa non c’è, purtroppo”. Niente altro.

Sherlock Holmes – È già in Cicerone, al lemma “signum”, segno, in “De Inventione”, I, 47, e nel ciceroniano sant’Agostino, “De doctrina christiana”, II, 1,1. Conan Doyle conosceva Cicerone e sant’Agostino? Probabilmente sì, a sua insaputa – aveva studi classici, era medico. Conosceva  anche Virgilio, che ha “segni”, e Celso, il primo dei medici – cui si deve il “congetturale”? Nicola Gardini, “Le 10 parole latine”, ne fa ampia disamina, seppure non negando la paternità o adozione del signum a Sherlock Holmes – non lo menziona.

Traduzione – “Tradurre è il sistema più assoluto di lettura”, Italo Calvino, “Sul tradurre”. Dei particolari, parola per parola, espressione per espressione?

Viaggiare – Flaiano, sedentario (ma ogni anno faceva un viaggio in Canada, con Andrea Andermann: era per la stabilità), si domanda in “Una e una notte”: “Perché altrove la vita dovrebbe essere differente? Signore, l’universo è così povero di fantasia”. E nel “Diario degli errori”. “La noia e la malinconia aspettano dovunque si vada per divertimento, per cambiare. Solo il luogo dove viviamo non ci fa pensare alla morte, al fallimento, alla vecchiaia. Turismo, triste invenzione.. Non c’è salute fuori dalla propria grotta. Stare fermi”.

letterautore@antiit.eu

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