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lunedì 26 maggio 2025

Ph. Roth sconsacrato

Una riedizione che si segnala per l’apparato, ritraduzione, copertina, titolo, primo volume di un’opera omnia. Soprattutto per la nota finale del curatore, e nuovo traduttore, Matteo Codignola. Che spiega le tanti varianti di traduzione. Il titolo soprattutto, senza il complaint dell’originale, o il lamento. Una traduzione, sia aggiunto, che sveltisce l’originale, lo attualizza, lo velocizza, adattandolo p.es. al gergo attuale dei postadolescenti – l’io narratore ne è uno. Ma non per questo si segnala la nota di Codignola: si segnala per il fastidio, dell’autore, e anche dell’opera. Tanto più considerando che, con “Portnoy”, Adelphi annuncia la riedizione di tutto Philip Roth.
L’uscita del racconto, gennaio1969, organizzata come un pandemonio – sfruttando anche l’incontinenza di Nixon, il presidente in carica: “Philip Roth è una brutta persona”. La critica ovviamente divisa, ma fronteggiata da un “Team Roth più compatto, più vocale, e anche più persuasivo del solito, mentre le minoranze, nessuna esclusa, erano ciascuna oltraggiata a suo modo. Di nuovo, quanto di meglio il marketing potesse desiderare”. Di nuovo? “Portnoy” era il terzo o quarto romanzo pubblicato da Ph. Roth, fino ad allora senza echi.
L’attenzione spasmodica al marketing non è il solo rilievo. Il “successo” che si moltiplica e si velocizza per ogni aspetto. Le critiche non tollerate – guai ai critici recalcitranti. Gli incassi subito stratosferici, a fini promozionali. E le precisazioni: la famiglia non è quella, la psicoanalisi sì, c’è stata, divertente, il personaggio non è l’autore, è un vicino, è immaginario. Ma, ricorda Codignola, due anni prima “American Imago”, la rivista scientifica fondata da Freud, aveva pubblicato “un denso saggio sul nesso fra personalità narcisistica e aggressività, The Angry Act, del dottor Kleinschmidt” (Hans J. Kleinschmidt, “The Angry Act: The Role of Aggression in Creativity”, “American Imago”, Vol. 24, Spring 1967), che divaga sul ruolo del narcisismo fra personalità artistiche, “Kandinskij, Sylvia Plath, e naturalmente Thomas Mann”, e poi fa un caso: “Quello di un paziente abbastanza giovane, … che, schiacciato fra una madre fallica e un padre inesistente, aveva finito per rinchiudersi in un narcisismo parossistico, e sfogare la propria aggressività sulle donne, trasformandole in oggetti msturbatori”.
Riserve riflesse – in sintesi, ma con più violenza - già nel risvolto. “«Questo libro rischia di provocare un secondo Olocausto» scrisse all’uscita di Portnoy uno studioso generalmente posato come Gershom Scholem. La profezia fortunatamente non era fatta per avverarsi, ma è difficile negare che da allora il monologo di Alexander Portnoy abbia investito, e travolto, tutto quanto ha incontrato sul suo cammino”. Si parte dall’alto, per poi consigliarne la lettura come di una confessione psicoanalitica. Attraente? O allora come di una standup – anche se la “più divertente e irrefrenabile mai messa sulla pagina. A cominciare dalle abitudini dei lettori”.
E perché una nuova traduzione? “Dopo molti anni, e infinite repliche, lo spettacolo aveva bisogno di un nuovo allestimento”. E non è finita: “Prima di assumere la sua forma attuale, il materiale di Portnoy è stato varie altre cose – fra cui un commento parlato alle diapositive di zone erogene illustri, che Kenneth Tynan avrebbe voluto inserire nel suo celeberrimo e allora sacrilego musical Oh, Calcutta! Solo dopo lunghi ripensamenti il monologo ha finito per diventare, nel 1969, il quarto libro di Philip Roth (1933- 2018)”. Quello della sua consacrazione (o sconsacrazione). E anche quello da cui Adelphi avvia la riedizione di tutte le sue opere.
Philip Roth, Portnoy, Adelphi, pp. 283 € 19

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