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Ph. Roth sconsacrato
Una riedizione che
si segnala per l’apparato, ritraduzione, copertina, titolo, primo volume di
un’opera omnia. Soprattutto per la nota finale del curatore, e nuovo
traduttore, Matteo Codignola. Che spiega le tanti varianti di traduzione. Il titolo
soprattutto, senza il complaint dell’originale, o il lamento. Una traduzione,
sia aggiunto, che sveltisce l’originale, lo attualizza, lo velocizza,
adattandolo p.es. al gergo attuale dei postadolescenti – l’io narratore ne è
uno. Ma non per questo si segnala la nota di Codignola: si segnala per il fastidio,
dell’autore, e anche dell’opera. Tanto più considerando che, con “Portnoy”,
Adelphi annuncia la riedizione di tutto Philip Roth.
L’uscita del
racconto, gennaio1969, organizzata come un pandemonio – sfruttando anche
l’incontinenza di Nixon, il presidente in carica: “Philip Roth è una brutta
persona”. La critica ovviamente divisa, ma fronteggiata da un “Team Roth più compatto,
più vocale, e anche più persuasivo del solito, mentre le minoranze, nessuna
esclusa, erano ciascuna oltraggiata a suo modo. Di nuovo, quanto di meglio il
marketing potesse desiderare”. Di nuovo? “Portnoy” era il terzo o quarto
romanzo pubblicato da Ph. Roth, fino ad allora senza echi.
L’attenzione
spasmodica al marketing non è il solo rilievo. Il “successo” che si moltiplica
e si velocizza per ogni aspetto. Le critiche non tollerate – guai ai critici
recalcitranti. Gli incassi subito stratosferici, a fini promozionali. E le precisazioni: la
famiglia non è quella, la psicoanalisi sì, c’è stata, divertente, il personaggio
non è l’autore, è un vicino, è immaginario. Ma, ricorda Codignola, due anni
prima “American Imago”, la rivista scientifica fondata da Freud, aveva
pubblicato “un denso saggio sul nesso fra personalità narcisistica e
aggressività, The Angry Act, del dottor
Kleinschmidt” (Hans J. Kleinschmidt, “The Angry Act: The Role of
Aggression in Creativity”, “American Imago”, Vol. 24, Spring 1967), che divaga
sul ruolo del narcisismo fra personalità artistiche, “Kandinskij, Sylvia Plath,
e naturalmente Thomas Mann”, e poi fa un caso: “Quello di un paziente abbastanza
giovane, … che, schiacciato fra una madre fallica e un padre inesistente, aveva
finito per rinchiudersi in un narcisismo parossistico, e sfogare la propria
aggressività sulle donne, trasformandole in oggetti msturbatori”.
Riserve riflesse –
in sintesi, ma con più violenza - già nel risvolto. “«Questo libro rischia di
provocare un secondo Olocausto» scrisse all’uscita di Portnoy uno studioso
generalmente posato come Gershom Scholem. La profezia fortunatamente non era
fatta per avverarsi, ma è difficile negare che da allora il monologo di Alexander
Portnoy abbia investito, e travolto, tutto quanto ha incontrato sul suo cammino”.
Si parte dall’alto, per poi consigliarne la lettura come di una confessione psicoanalitica.
Attraente? O allora come di una standup – anche se la “più divertente e
irrefrenabile mai messa sulla pagina. A cominciare dalle abitudini dei lettori”.
E perché una nuova
traduzione? “Dopo molti anni, e infinite repliche, lo spettacolo aveva bisogno
di un nuovo allestimento”. E non è finita: “Prima di assumere la sua forma
attuale, il materiale di Portnoy è stato varie altre cose – fra cui un commento
parlato alle diapositive di zone erogene illustri, che Kenneth Tynan avrebbe
voluto inserire nel suo celeberrimo e allora sacrilego musical Oh, Calcutta!
Solo dopo lunghi ripensamenti il monologo ha finito per diventare, nel 1969, il
quarto libro di Philip Roth (1933- 2018)”. Quello della sua consacrazione (o
sconsacrazione). E anche quello da cui Adelphi avvia la riedizione di tutte le
sue opere.
Philip Roth, Portnoy,
Adelphi, pp. 283 € 19
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