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mercoledì 3 febbraio 2021

La fine dell’eccezionalismo americano

L’America contro tutti? Non funziona. Se la presidenza Trump è qualcosa, è stata il tentativo americano di fare da soli. Non è più possibile. Se non a fare il tragicomico don Chisciotte, che perde tutte le guerre, le cattive e le buone, illudendosi di vincerle, giacché è sempre nel giusto.
Kissinger, cui si deve la scoperta della Cina, prospetta ancora di recente, “Sulla Cina”, un’America “europea”, la sua, attenta agli equilibri: osservatrice, calcolatrice, diplomatica. Non lo è, e non per colpa di Trump: pretende sempre di sé una natura e un ruolo di eccezionalità.
Ma può ancora averlo? E non per gli islamici, impazziti nel terrorismo. Per un motivo semplice: ha fatto della Cina la sua fabbrica e il suo fornitore, e ora la Cina non si accontenta di avere pagate le fatture, vuole sedere in consiglio d’amministrazione. L’America ha bisogno di sponde. O d’interrompere la “catena di produzione” (“di valore”) cinese, una catastrofe.  

Quando la speculazione fu battuta, non da GameStop

La scena è occupata da GameStop con l’immagine di Robinhood, e con quella nuovissima dei Giustizieri del web, che sono la solita favola americana del bene che trionfa, e vogliono solo dire “viva il mercato”. Come se l’affare GameStop avesse rovinato gli hedge fund, la speculazione che puntava alla rovina del titolo – mentre li ha solo graffiati, in superficie.
L’affare è stato come questo sito lo spiegava già sabato. E GameStop è ndata subito al ribasso, pesante, come doveva andare. Con rovina dei piccoli azionisti che hanno comprato ai massimi - il “parco buoi” di ogni mercato di Borsa.
Si dimenticano invece due colpi ben assestati alla speculazione angloamericana, in Europa, nell’attacco all’euro nel 2011, e in quello a Volkswagen nel 2008. Sì, nel 2008, l’anno della crisi finanziaria, gli hedge avevano puntato Volkswagen, il gruppo europeo forse più solido: se l’attacco riusciva, avrebbero fatto il guadagno del secolo. L’euro fu difeso da Draghi come al cinema, da “drago”, è il caso di dirlo, cui basta un solo alito di fuoco per spegnere l’incendio. L’attacco a Volkswagen fu contrastato da Porsche, che aveva spalle solide, e dal caso uscì padrona del gruppo automobilistico pubblico, comprando al ribasso, più sapiente e abile degli gnomi malvagi della City e di Wall Street – a brigante, brigante e mezzo.
Contro la speculazione reggono solo le regole – regole di Borsa precise, non vaghe e lassiste, come quelle p.es. di Consob. E potenza di fuoco. Dei piccoli e minimi, specie di chi si minimizza farà sempre un boccone, insaziabile peraltro.

Gadda sceneggiatore – come finiva il “Pasticciaccio”

Un altro trattamento cinematografico del “Pasticciaccio di via Merulana” – dopo quello intitolato “Il palazzo degli ori”, pubblicato postumo me 1983. Di quello che sarà il “Pasticciaccio”, perché il trattamento è del 1947-48, dieci anni prima dell’uscita del romanzo. Basato sull’anticipazione pubblicata nel 1946 da Bonsanti nella sua rivista “Letteratura”. E ha i colpevoli, a differenza del romanzo, per questo aspetto incompiuto.
È un periodo gramo per l’Ingegnere, che vive “fra gli orrori, le insolvenze, i piccoli prestiti”, della generosità dei suoi amici fiorentini – l’anno dopo riusciranno a farlo assumere alla Rai. Bonsanti gli ha procurato un incontro alla Lux Film, e Gadda spera proprio di poter entrare nel lucroso business del cinema. Richiesto di un trattamento della sua idea di film, si mette all’opera, contrariamente al suo solito – caratterialmente incapace di lavorare su commissione.
Il trattamento è scritto “per la Lux Film”. Anzi per il “regista Antonioni Michelangelo” – che avrebbe esordito tre anni dopo, con “Cronaca di un amore”. Abbreviato rispetto al “Palazzo degli ori”, 20 cartelle invece di 60. Ma professionale, pur non sapendo il mestiere, da spettatore di cinema: 40 quadri scrive “mozzafiato”, come si dice dei gialli, di ritmo veloce.
La nuda storia del “Pasticciaccio”, non “scritta”, fa un certo effetto, da romanzo d’appendice: bellocce mature, gioielli e bigliettoni, giovani voraci e disinvolti. Con un commendator Angeloni che è tutto Gadda, grande e grosso, goloso, solitario, timoroso dell’ombra.
Il bello è che la storiaccia fila. Oggi inutilizzabile, saprebbe di film storico (di costume e di letteratura)  ma nei tardi anni 1940 sarebbe stato un quadro d’epoca forte. L’Ingegnere degli umili non sa non essere realista: la cupidigia è “dei poveri non meno dei ricchi”, avverte nella nota introduttiva. Non c’è innocenza nel bisogno.
Giorgio Pinotti mette in quadro l’inedito
Carlo Emilio Gadda, La casa dei ricchi, Adelphi, pp. 87 € 5

martedì 2 febbraio 2021

Letture - 447

letterautore

Berlino - Non affrettarsi, non fermarsi mai, il modo di essere - o di dire - di Berlino è il festina lente di Erasmo, strepitoso ossimoro, di correre lentamente.

Eugenetica  - “Una dama di rango s’innamorò con tale smania di un certo signor Dod, predicatore puritano, che pregò suo marito di lasciarli giacere insieme perché procreassero un angelo o un santo; ma, accordato il consenso, il parto fu normale” - Drummond, “Ben Ionsiana” (1618 ca) (in Borgese-Bioy Casares, “Racconto brevi e straordinari”).
 
Germania
 È nata male? Per Heidegger sì: i Gründerjahre, gli anni dei padri fondatori,  la fase della grande industrializzazione tedesca e austriaca, 1840-1870. . Heidegger li critica, “Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare”, 91: “È l’epoca dei Gründerjahre, in cui tutto quanto, in fondo senza un terreno solido e senza rendersi conto di nulla, correva dietro ala crescita, al progresso e ala prosperità,  per emulare su piccola scala gli Inglesi e conquistare dall’oggi al domani una posizione mondiale per la quale mancavano tutti i presupposti, e che soprattutto – qui come là, in Inghilterra e ovunque, riposa su un mondo divenuto fragile, per il quale l’unica filosofia è il «darwinismo», con la sua dottrina della «lotta per l’esistenza» e della selezione  naturale e artificiale del più forte”.
 
“C’è oggi una Germania efficiente, economicamente aggressiva e culturalmente scialba – asettica, come certe donne perfette, bellissime e  indesiderabili” – Claudo Magris, “L’infinito viaggiare”, 159 – 13 febbraio 1993.
 
Anche Heidegger era per l’incertezza. “Nessuno pensa a come stiano le cose riguardo ai tedeschi”, lamenta in “Note I”, il primo dei “quaderni neri” del dopoguerra, all’inizio dell’occupazione, “se essi siano ancora o siano una buona volta in sé, se sappiano affatto chi mai essi stessi siano, se siano capaci di pensar per approdare a questo sapere, se essi possano entrare nel tempo lungo del ricordo, nel quale finalmente prospera la verità della loro essenza”. Con una conclusione che aggiunge all’incertezza, a proposito di questa verità: “La quale verità è: essere la comunità pastorale”, il greggiame, “dell’Occidente, della ‘terra della sera’, perché la sera è il tempo e la terra il suo spazio”….
 
Si fa molta musica in Germania. “La musica è per sua natura squisitamente invernale”, attesta Savinio. La Germania è invernale?
 
Incomunicabilità
– Ci sarebbe  tra le varie letterature – nazionali, linguistiche. È il quesito che V. Woolf pone in “Il punto di vista russo”, e a cui si risponde affermativamente: un americano, sia pure Henry James, non vive in pieno la letteratura inglese, il miglior letterato inglese ha difficoltà a entrare nel mondo russo, di Cechov, di Dostoevskij, di Tolstòj. La lettura come vaso di incomunicabilità?  
 
Italia
–Quanta Italia, tra gli elisabettiani e a corte,  nell’Inghilterra del Cinquecento. Il secolo della fondazione dell’impero. Nel Seicento sempre più l’Inghilterra è “macbethiana”, di odii e violenze,  irrefrenabili. Mentre l’Italia scompare – Milton è eccezione, non valente italianista peraltro.
 
Kant
– Era fantasioso. Nonché in  Antropologia, che insegnò per tutta la vita inventandosi di tutto, lo è anche in filologia. Prima di Gottinga e degli ario germani-arianesimo, in nota a “La fine di tutte le cose”, deriva parole fondamentali dello zoroastrismo, il bene, Ormuzd, e il male, Ahriman, dal tedesco. Da Godeman, buon uomo “(termine che sembra essere racchiuso anche nel nome Darius Codomannus)”, e da “arge Mann”, uomo malvagio. Codomannus è il soprannome di Dario III, il re di Persia sconfitto da Alessandro Magno.  
 
Lutero
– Un bon vivant, che in rima ammoniva: “Quel che non ama il vin, le donne, il canto,\ mena da stolto il viver tutto quanto”.
 
Nietzsche - La “Nascita della tragedia” è la sua tesi di laure. Nemmeno di dottorato, dice il professore di Houellebecq protagonista di “Sottomissione”, troppo affastellata.
 
Mussolini legge Nietzsche - ne scrive comunque, nel 1908 (“La filosofia della forza”, sui numeri 48-49-50 de “Il Pensiero Romagnolo”, organo del partito Repubblicano locale) - e lo apprezza straordinariamente: “Creatore di sistemi filosofici o no, Nietzsche è pur sempre lo spirito più geniale dell’ultimo quarto del secolo scorso e profondissima è stata la influenza delle sue teoriche. Per qualche tempo gli artisti di tutti i paesi, da Ibsen a D’Annunzio, hanno seguito le ombre nietzscheane. Gli individualisti un po’ sazi della rigidità dell’evangelio stirneriano si sono volti ansiosi a Zarathustra e nella filosofia dell’Illuminato trovano il germe e la ragione di ogni rivolta e di ogni atteggiamento morale e politico.”.
 
Roma – Vivendoci, ci si può sempre consolare con Vernon Lee, “The spirit of Rome”, 1897: “Muovendo dalla stazione a mezzanotte, l’immensità di ogni cosa, le proporzioni gigantesche dei palazzi silenti e delle chiese sbarrate. Passando davanti al Quirinale, i Dioscuri colossali con i loro cavalli, tra di loro la fontana che zampilla d’acqua….
“Persino l’incredibile, immane volgarità delle cose moderne, cartelloni pubblicitari lunghissimi agli angoli delle strade sotto i lampioni a gas, e file immense di case costruite alla buona aiutano in qualche modo a creare l’impressione che Roma sia un teatro delle epoche; un gigantesco palcoscenico, splendidamente evocativo per l’occhio e per la fantasia, calcato, come sempre farà, dal Temo impettito e declamatore”.
A  dispetto del tempo, la città eterna del modo di dire? “Roma è viva (e tanto più lo è nella sua occasionale aria di morte)”.
 
Solitudine - È ciò che il lettore cerca, anche lo spettatore – e di più quando vene aggredito, per esempio dal teatro elisabettiano – “la morte di una dozzina di uomini e donne ci tocca meno della sofferenza patita da una delle mosche di Tolstòj”, V Woolf, “Appunti sul dramma elisabettiano”. Inevitabilmente, a un certo punto, stanca degli eccessi, la mente “si volge verso Donne, verso Montaigne, verso Sir Thoma Browne, verso i custodi che conservano la chiave della solitudine”.
  
Stroncatura – Legittima, anzi doverosa, per Virginia Woolf, “Come leggere un libri?”, cattivissima: “Non vanno forse criminalizzati i libri che ci fanno sprecare tempo e partecipazione emotiva? Non sono forse i peggiori nemici della società – corruttori, profanatori, gli autori di libri finti e falsi, libri che impestano l’aria di decadenza e malattia?”
Leggere è passare dall’amicizia con lo scrittore al giudizio: “E se come amici nessun grado di empatia è esagerato, come giudici nessun grado di severità sarà eccessivo”.

letterautore@antiit.eu

Caffè Europa

Si parte dal caffè: “Il caffè è il luogo dell’Europa”, la conversazione, la socievolezza casuale. Si continua con la camminata: “L’Europa è stata, e viene ancora, camminata”. È “un paesaggio modellato e umanizzato”, ogni centimetro quadrato, e “itinerante”, anche nel pensiero, la riflessione, la metrica - camminano anche materialmente i filosofi (dai Peripatetici a Rousseau, Kant, Kierkegaard, Heidegger), i poeti (Hölderlin, Coleridge, Byron, Chateaubriand), i pittori (Breugel, Van Gogh, Monet) i musicisti (Schubert, Mahler), i generali (Alessandro, Senofonte). Si prosegue con la storia: la semplice toponomastica è un libro ricchissimo di storia in Europa.
L’Europa è un tutto pieno, che difficilmente si può colmare: “Che cosa può aggiungere chiunque di noi alle immensità del passato europeo?” E sembra un elogio, sontuoso, presuntuoso – è la conferenza che Steiner tenne a Amsterdam, al Nexus Institute, nel 2004. Ma è un epicedio – sontuoso: è “un in memoria luminoso e insieme soffocante”, spiega lo stesso Steiner a metà percorso.  
“L’idea d’Europa è la «storia di due città», Atene e Gerusalemme”. Di un sincretismo in dialettica inesauribile, “con qualche falla” – denunciata all’esordio della conferenza: “Uccidendo i suoi ebrei, l’Europa si è suicidata”. L’Europa è quindi un morto vivente? Non ancora, non necessariamente. Da ultimo, la storia dell’Europa è stata quella del giudaismo secolarizzato: “Citare Marx, Freud ed Einstein (ma aggiungerei Proust) come padri della modernità, come artefici della nostra attuale condizone, è ormai un cliché”. Ma insieme con la modernità va “una consapevolezza escatologica che, credo, possiamo trovare solo nella coscienza europea, la coscienza della fine. A partire da Newton, “molto prima” dunque di Valéry e di Spengler. “Due guerre mondiali, che in effetti sono state due guerre civili europee, hanno esasperato questo presagio fino all’incandescenza”.

È la coscienza della crisi che attanaglia l’Europa. Il rimedio? La superbia intellettuale,   “conoscenza come professione” di Max Weber, la “mania” di Platone – la Repubblica di Platone? Domina “il modello asiatico-americano” – quello che si dice globalizzazione? “Con il crollo del marxismo nella tirannia della barbarie e dell’assurdità economica abbiamo perso perso un grande sogno: quello dell’uomo comune che segue la scia di Aristotele e Goethe, come sognava Trockij. Ora che si è liberato da un’ideologia fallimentare, quel sogno può – anzi deve – essere sognato di nuovo”.
Steiner parte sorridendo ma conclude triste: l’Europa ha un futuro, sia pur e come idea? “La solidarietà e la creatività possono sbocciare in condizioni di elativa miseria”. Una speranza, non consolante.
George Steiner, Una certa idea d’Europa, Garzanti, pp. 93 € 4,90

lunedì 1 febbraio 2021

Il modello asiatico-americano

Che farà Biden della Cina? È l’interrogativo del momento, nelle cancellerie e le Borse. Dopo che Trump ha “visto” le carte di Pechino, e comunque per una situazione di fatto di divaricazione tra Stati Uniti e Cina, per molteplici aspetti, dopo trent’anni di simbiosi, produttiva e, a suo modo, culturale.
Che può farne, è interrogativo correlato. La Cina essendo da una parte abbarbicata al modello americano, al business for business. Ma senza le primarie, i Grandi Elettori, il mid-term, i media. Senza i labari dell’American Dream – in Cina i media ci sono ma con la museruola e in funzione di altoparlante, anche i social sono censurati. American Dream di cui peraltro la Cina, benché comunista, e da sempre isolazionista, per il forte complesso di superiorità sul mondo intero, si pensa ultima incarnazione - la stessa figlia del Presidente Xi è ben “amerikana”, ha studi e amicizie nell’Ivy League, l’aristocrazia Usa.
Di fatto, molti dossier s’impongono, che Biden non potrà sottovalutare, questioni fondamentali. Non ultima, la quasi indennità della Cina dal virus, che ha contagiato soprattutto gli Stati Uniti e l’Europa. Le ragioni di scambio non fanno che deteriorarsi, per quanto il costo del lavoro e ogni altra voce si possano comprimere in America (e in Europa): il mercato del lavoro cinese è imbattibile, senza minimi e senza orari, il denaro non costa, la protezione politica assicura mercati di favore, di fatto protetti – naturalmente giganteschi, nella gigantesca demografia cinese. Il deficit commerciale è perciò enorme e in crescita – specie dopo questi due anni di crisi in Occidente, 2020-2021.
La natura del regime a Pechino non potrà non venire in rilievo, anche se si finge il contrario. Per i diritti civili e politici all’interno della Cina e a Hong Kong – Biden non può protestare con Mosca e chiudere un occhio con Pechino. E soprattutto per i rapporti del regime col mercato, per il condizionamento politico del business. Settori sensibili sono, come tutto in Cina, in qualche modo sempre legati al regime politico – Huawei è un caso fra tanti.

Falsi d'autore, a quattro mani

Racconti brevissimi, e densi, si direbbe, più che straordinari: di lettura stranamente non veloce, anzi anche faticosa. Un massimario, anche sentenzioso, dietro la compilazione faceta. Molti sono i sogni, e i sogni dei sogni, per intendersi.
Sono testi orientali per lo più, aneddoti, moralità, sogni appunto. Inventati dai due amici burloni, oppure no. Più molti Kafka, un paio di Max Jacob, e qua e là altri fantasisti, Cocteau, Silvina Ocampo, moglie di Bioy Casares e musa di entrambi, Stevenson, Santiago Dabove. 
Numerosi i ricorsi a Richard Francis Burton, specialmente frequentato da Borges per le note alla sua traduzione delle “Mille e una notte”. Anche di questi racconti straordinari le note sono spesso la parte più interessante. Comunque indispensabili per il gioco, poiché di un gioco la compilazione è frutto, per poter giocare con gli autori. 
Borges e Bioy Casares vi praticano “nella misura più rilevante e nelle forme più varie”, annota Tommaso Scarano, custode e interprete di Borges in Italia, “il gioco scanzonato delle opere e degli autori immaginari, delle false attribuzioni, delle interpolazioni apocrife”. Se ne dilettarono congiuntamente per molti anni su varie pubblicazioni, e questa è una delle tante antologie che se ne sono fatte. Per circa quarant’anni Borges e Bioy Casares collaborarono in vario modo. Più spesso con  rubriche a quattro mani di note e racconti brevi, moralità, apologhi, citazioni, la cui fonte può essere reale o inventata.
Parte di queste storie sono confluite anche in altre opere di Borges.
Jorge Luis Borges-Adolfo Bioy Casares, Racconti brevi e straordinari, Adelphi, pp. 204 € 13

domenica 31 gennaio 2021

Problemi di base - 620

spock


A che serve la vita?
 
O a chi - se non a godersela in proprio, finché dura, per il fatto stesso di viverla?
 
Senza, non si è?
 
Si è nella gioia e nella sofferenza – da virus malefico come da gestore telefonico esoso e capriccioso (magari entrambi cinesi)?
 
La vita è sogno, ma si sogna senza vita?
 
“E tuttavia, quello che resta sono i poeti che lo creano”, F. Hõlderlin?

spock@antiit.eu

La guerra di Dio

“In una delle sue guerre Alì atterrò un uomo e gli si mise in ginocchio sopra il petto per decapitarlo. L’uomo gli sputò in faccia. Alì si rialzò e lo lasciò andare. Quando gli chiesero perché lo avesse fatto rispose: “Mi ha sputato in faccia e ho temuto di ucciderlo in stato di collera. Voglio uccidere i nemici in stato di purezza davanti a Dio” - Ah’mad al Qalyubi, “Nawadir”.
“Ah’mad Ibn Ah’mad al-Qalyubi fu un letterato egiziano vissuto nella prima metà del XVIImo secolo; in una raccolta antologica di adab trattò vari aspetti della tradizione culturale islamica, dalla letteratura alla geografia al diritto. Il suo testo più celebre è la raccolta di aneddoti «Kitab al Nawadir» («Libro delle rarità»)” – Tommaso Scarano, in nota a Borges-Bioy Casares, “Racconti brevi e straordinari”.
Adab
sono gli adagia di Erasmo da Rotterdam, il patrimonio letterario per riferimenti e aneddoti, in materia specialmente di morale
.

Nonno Libero in America

La “guerra” tra nonno  nipote, quando il primo occupa la camera del secondo, come lezione  garbata sui danni, a nessun vantaggio, della guerra. Tra mille dispetti, e gag eroicomiche. Orchestrate da un regista di film d’animazione.
Un film spensierato, nemmeno politicamente corretto: i due soli non-bianchi, un nero e un latino, sono marginali e brutti. Con volti noti e notissimi, De Niro, Uma Thurman, Walken, Jane Seymour tra i tanti. Tratto da un romanzo, ma con rimandi ritornanti al format  “Un medico in famiglia”, al nonno Libero di Lino Banfi. Girato sveltamente, si vede, come per la tv, e con un finale da sequel.
Tim Hill, Nonno questa volta è guerra, Sky Cinema

sabato 30 gennaio 2021

Secondi pensieri - 440

zeulig


Ambiguità – “L’ambiguità è il metodo dell’intelligente univocità”, L. Sciascia, “Un conato di morte” (in “«Questo non è un racconto»”).
 
Creazione – Adolfo Bioy Casares, narratore e poeta esimio, che ebbe una collaborazione quarantennale con Borges, cui lo accomunavano le letture fantasy e il gioco delle opere e degli autori immaginari, oggi è egli stesso scrittore praticamente immaginario. Esiste solo nelle opere firmate – spesso con pseudonimi, normalmente doppi – con Borges. Come nome immaginario di Borges. La letteratura porta all’astrazione, quindi alla negazione di sé?
La poesia e il racconto sono creazioni libere e totali, o disincarnazioni dell’autore? Con (Pessoa, Voltaire, Shakespeare) e senza pseudonimo? Incarnazione e non disincarnazione?
Sono l’una e l’altra: creazione attraverso la disincarnazione. Tanto più che l’autore è dei suoi critici – il suo pubblico, i suoi editori, i suoi recensori.
 
Realtà – L’irrealtà della realtà è la stessa cosa che la realtà dell’irrealtà. Tutto nell’universo concorre ai concetti di infinito e eterno: se opera nella finitezza, ha però qualche mistero, cioè è infinito e eterno. Il mondo nudo, non al coperto di regole e limiti, anche solo linguistici, vi rimanda, cioè all’inconoscibile.
 
Si preparano le spedizioni sulla Luna, e poi su Marte. Che prenderanno alcun secoli. Per fare che? Un nuovo West.
 
Riso – Quello di Bergson, “movimento senza la vita” (“Il comico è quell’aspetto della persona per il quale essa rassomiglia  a una cosa, quell’aspetto degli avvenimenti umani che imita,  con la sua rigidità di un genere tutto particolare,  il meccanismo puro e semplice, l’automatismo, insomma il movimento senza la vita”, etc., ma è una correzione, “è un certo gesto sociale, che sottolinea e reprime una certa distrazione speciale degli uomini e degli avvenimenti”) Leonardo Sciascia collega al cinema muto, che era allora (1899) il veicolo più diffuso della comicità. “Né va dimenticato”, aggiunge lo scrittore, “che il cinema peculiarmente nasce come «movimento senza la vita», puro e automatico movimento”.
 
Si sottovaluta nei tanti riferimenti quello a Hobbes, che pure è il più radicale: che si ride perché ci si sente superiori - “tratto caratteristico della pusillanimità” lo dice nella parte iniziale del “Leviatano”, trattando delle passioni: “Una gloriola  improvvisa è la passione che fa quelle Smorfie chiamate risata; ed è causata o da qualche azione imprevista da parte propria, che piace; o dall’assunzione di qualcosa di deformato in altri, al cui paragone si applaude d’un tratto se stessi” (“Sudden glory, is the passion that maketh those Grimaces called LAUGHTER; and is caused either by some sudden act of their own, that pleaseth them; or by the apprehension of some deformed thing in another, by comparison whereof they suddenly applaud themselves”).
Di Hobbes Sciascia dice che “buona opinione dei propri simili non aveva” – Hobbes si vuole hobbesiano. Del riso si occupò poco, e sempre in effetti negli stesi termini, riduttivi, anzi spregiativi, negli “Elementi di Legge” e nel “De Homine” (“universalmente la passione del riso è un improvviso autocompiacimento a fronte del difetto di un estraneo” – “universally the passion of laughter is sudden self-commendation resulting from a stranger’s unseemliness”). Ma personalmente i contemporanei concordano a dotarlo “di uno humour naturale allegro e piacevole”.
     
Voltaire diceva di no, “chiunque rida prova unicamente gioia in quel momento”, disgiunta da misure – Voltaire sapeva, e non approvava, che “gli studiosi hanno sostenuto che questo riso nasce dall’orgoglio, che ci si crede superiori rispetto all’oggetto della nostra derisione”. Il riso non è comparativo, comparativa è semmai l’ironia – che però è dissacratoria (distruttiva) ma anche dolente (partecipe). In Rabelais, che non era un guitto ma uno studioso, è tutto il contrario della supponenza, Gagantua e Pantagruele gigioneggiano per non piangere.

Però, è vero, Umberto Eco avrebbe avuto problemi, lui scherzoso maestro di scherzi, a tratteggiare il riso nella sua abbazia medievale - hanté peraltro dalla perdita del trattato di Aristotele sulla commedia (sarebbe stato diverso dalla risata - o era un rictus? - di Democrito?).  
 
Reincarnazione – Le reincarnazioni sono ripetitive - l’altro lo stesso, camuffato. Per il meccanismo. E per un difetto d’immaginazione: per accontentarsi di poco, di vivere qualche altro annetto.
 
Storia – “Tempo dotato di significato”, G. Steiner, “Una certa idea dell’Europa”.
O anche: “Quel grande museo dei sogni del passato”, ib..
 
Il tedesco ha la Geschichtsmüde, la stanchezza della storia.
 
Tempo - È un metronomo. Scandisce una materia immateriale, inafferrabile. Una delle forme dell’informe. Uno dei titanismi (?) dell’uomo: chiamare l’innominato, misurare l’immisurabile. E calcolare, controllare (misurare), progettare, rivedere, fabbricare.
 
Il tempo misurato (calcolato, progettato) è metronomo dell’intemporale. Si vuole dare una traccia visibile (si vogliono dare tracce visibili) all’intemporale.


zeulig@antiit.eu

La scoperta della Dc

Finalmente “la Repubblica” scopre, il 30 gennaio 2021, che il Pd è un partito democristiano. Con una sinistra, sì, ma democristiana, Franceschini, Del Rio. Quell’altra, la (ex) Sinistra di Bobbio, non
conta e non sa, anzi non esiste. Una scoperta bisogna dire mozzafiato, nella penna di Concita De Gregorio, anche se nota ai più:
https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/01/29/news/crisi_governo_pd_pci_dc-284880953/
“È gentilissimo, va detto. Leale, tanto una brava persona. E però ogni volta che inciampa esita traccheggia, tira fuori dalla tasca un foglietto da leggere, non trova l’ uscita e qualcuno deve prenderlo per il gomito – per di qui, segretario - Nicola Zingaretti lascia dietro di sé l’eco malinconica di un vuoto. Come un ologramma, sorride e svanisce. Una vita da mediano, a recuperar palloni, il segretario del Pd è quanto di meglio la tradizione comunista abbia oggi da offrire. La sinistra, diciamo…”
Che, poi, non ha colpa, Zingaretti, onesto lavoratore. C’è una storia dietro da riscrivere. De Gregorio ha rotto gli argini, in mezzo alle melense celebrazioni di quello che la Sinistra (non) è stata dal 1921? Sarebbe ottimo giornalismo, di richiamo – in attesa che qualche contemporaneista accademico esca dal timore e tremore. 

Il cinema, prima passione di Sciascia

“Questo non è un racconto” è per Sergio Leone, il regista - “l’incipit è di Diderot”. È “un soggetto per un film”, che diverte Sciascia e lo impegna anche: dà il tono, se non i particolari della storia, di “C’era una volta l’America”, nientemeno. Anche se Squillacioti, che ha curato la raccolta, e Vito Catalano, il nipote di Sciascia che ha recuperato i materiali tra gli inediti, sviliscono la sua partecipazione al capolavoro di Leone – Catalano già nel lungo scritto “Quello scrittore che disse «no» a Sergio Leone”, sul “Messaggero” del 20 gennaio 2019. Sviliscono il rapporto tra Sciascia e Leone. E perfino il gusto dello scrittore per il cinema: tanto amato, spiegano, fino ai vent’anni, ma rifiutato ai quaranta. Il che non è falso, Sciascia lo scrive netto nel 1965, a proposito di “Antonioni, Bergman, Pasolini”, p. 84: “Non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre”, Va al cinema di rado, scrive anche, e quasi mai resiste fino alla fine.
Un biografo obietterebbe: non è credibile. Squillacioti stesso richiama una testimonianza di Sciascia in un articolo su “La Stampa” del 1989, “Requiem per il cinema” – repertoriato nel secondo volume Adelphi delle “Opere”, col titolo “C’era una volta il cinema”: “Fin oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore”. Sciascia dice anche che non vede i film tratti dai suoi libri. Non è una civetteria – o un modo per non imbarazzare produzioni e registi con i quali ha trattato i diritti e che quindi meritano rispetto? Mentre continua a scrivere critiche e ricordi di film vecchi e nuovi. Questa ne è la raccolta, di note per lo più non antologizzate altrove, con alcuni inediti, tra essi i soggetti da film.
Con questa incongruenza, una serie di note di Sciascia sul cinema, dunque, a partire dai versi – i soli versi conosciuti di Sciascia? – in morte di Jules Berry e di Gary Cooper. Note sapide, come tutto di Sciascia, stimolanti, godibili. Di buona lettura anche i tre racconti da film, che aprono la raccolta: oltre al “trattamento” per Leone, spigliato, andante con moto, professionale, due soggetti, uno per Lina Wertmueller, 1968, su una donna di famiglia di mafia che rompe l’omertà, che la regista poi non riuscì a realizzare, e uno per Carlo Lizzani, per un film di mafia. Catalano segnala anche un quarto trattamento cinematografico, per “Viva l’Italia” di Roberto Rossellini, 1959, trovato tra le carte di Sciascia: la sceneggiatura di tre episodi che non avrebbero trovato poi posto nel film (ma Catalano non ne è sicuro), poiché il nome non figura nei crediti -  “Sessantadue fogli dattiloscritti”, che lo scrittore conservò ordinati, “tre grandi scene, della Sicilia al momento dello sbarco di Garibaldi”. Partecipò anche, con almeno un testo recepito dal regista Vancini, nel 1962 al film “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”.
Cinema o non cinema, è però vero che un altro Sciascia il volumetto fa emergere: non il raziocinante moralista, ma uno umorale. Voltairiano ma non del tutto, non cinico. Per essere spontaneo, e anzi poco riflessivo. Squillacioti ricorda l’infatuazione per Marylin Monroe in testi qui non ricompresi. Ma basta l’eulogia “I miti del cinema”, per il film “The Misfits”, a proposito del concetto di “inadeguatezza” oggi imperante in psicologia: “Il ritratto della donna inadatta vien fuori non per merito di Houston: ma di Miller che ha scritto il ritratto di Marylin, e di Marylin che recita se stessa…. Un’americana che cerca «qualcosa», che chiede se «c’è qualcosa che resta». Crepuscolare mito dell’America: che non sa, quando la bellezza sfiorisce, velare gli specchi e guardare dentro di sé”. L’America che Sciascia non conosceva e non ha voluto conoscere, se non sui libri, e al cinema.
Sciascia esce dal guscio Sciascia, uno scrittore multiforme?  
Leonardo Sciascia,
“Questo non è un racconto”, Adelphi, pp. 170 € 13

Se la speculazione arruola Robin Hood

Robinhood, la piattaforma del trading (compravendita di titoli) online senza commissioni, s’è messo a tacere quando il pubblico ha contrattaccato contro gli hedge fund che speculavano al ribasso – “shortavano” – su GameStop, l’azienda dei videogiochi che avevano nel mirino. Un gruppo di trader si è organizzato su Reddit, la rete dei messaggi online, per comprare GameStop ai prezzi ribassati dali fondi sfidando la speculazione. Hanno avuto successo, moltissimi trader anche occasionali hanno comprato GameStop, il titolo da 40 dollari è salito a 400, e a questo punto Robinhood ha bloccato le contrattazioni. Non tutte le contrattazioni, la piattaforma è sempre attiva, ha bloccato gli acquisti di GameStop.
La ragione dello stop non è stata data. Ma la storia non è come viene presentata, della vittoria di Davide contro Golia, delle formichine contro il drago della speculazione, al contrario: l’unica spiegazione che gli analisti finanziari si danno è che “l’industria degli hedge-fund”, della speculazione, si è preso anche il nome e il ruolo del difensore dei poveri e degli oppressi, surrettiziamente. Se Robinhood non era già una piattaforma della speculazione, per attirare nel “parco buoi” i piccoli e piccolissimi investitori, con l’esca delle zero commissioni. La dinamica dello stop è chiara: per i fondi shortatori la perdita è colossale (si parla di 40 miliardi) ma solo in potenza, se la superquotazione si sgonfia in tempo, prima dei termini entro cui devono procurarsi le azioni che avevano venduto.  
“Shortare” è una speculazione sempre più diffusa. Fu tentata con l’euro, nel caso della Grecia, e poi con determinazione, a lungo, nei mesi estivi del 2011, contro i pigs, i paesi europei deboli, Italia compresa, quella che ha pagato più caro la speculazione, dai 50 ai 100 miliardi – facendo aggio sulla “indecisione ossequiosa” della Germania, come la serie “Diavoli” un anno fa su Sky mostrava. Protetta, come già dalla Germania di Angela Merkel dieci anni fa, dall’informazione economica, ad essa per tanti fili legata.

Il disarmo nucleare non può attendere

L’intesa sulla moratoria nucleare con Mosca, rinnovata da Trump a fine mandato, e unico punto di contatto finora tra Biden e Putin, passa tra le cose ordinarie, ma potrebbe e dovrebbe riaprire i negoziati per il disarmo nella stessa materia. Dovrebbe, ma finirà per farlo, anche se non è in agenda: trent’anni di nessun progresso nel disarmo nucleare hanno visto infittiti e non diminuiti i rischi.
La Cina, che è fuori dagli accordi in essere, non può restarlo. La globalizzazione ha fatto finta che la Cina non sia una grande potenza militare, il tema è rimasto confinato ai vecchi, vecchissimi, protagonisti della guerra fredda, Usa e Russia, e non è chi non veda l’assurdo della cosa. Altri paesi, fuori di ogni assetto internazionale, per quanto multilaterale, incombono. La Corea del Nord sulla Corea del Sud, il Giappone e la stessa Cina. L’Iran 

La solita Europa poco e tardi

Sembrava rilanciarsi con la formula “Ursula” di Prodi, la scelta della nuova Commissione tra Popolari e Socialisti insieme, con l’apporto dei 5 Stelle, ma è sempre l’Europa del poco e tardi. In confronto all’America del vituperato Trump, quasi zero. Perde la partita perfino con la Gran Bretagna di Johnson.
Le vaccinazioni anti-covid ha fatto partire in ritardo, ritardandone l’esame e l’approvazione. E le forniture consente che siano ritardate, per contratti fatti male, che si vergogna ora di rendere pubblici – col sospetto non sospetto che le consegne siano ridotte non per problemi di produzione ma per il dirottamento della produzione verso destinazioni più prodighe, compresi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Le vaccinazioni in America sono partite a metà dicembre, sono di massa, un milione al giorno, gratuite per tutti, compresi gli immigrati senza permesso, e hanno coperto l’equivalente di metà della popolazione italiana, il 7 per cento della popolazione americana, tre volte tanto i vaccinati in tutta la Ue.
Nessuno scandalo del resto è possibile se Pfizer e Astrazeneca dirottano i vaccini. Il gruppo americano e il gruppo britannico hanno ricevuto dai rispettivi governi finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo del vaccino sette volte maggiori di quelli disposti dalla Ue. Dove peraltro le vaccinazioni di massa non si sa ancora come organizzarle. Dai siti di stoccaggio a basse temperature all’organizzazione. In appositi capannoni, i “quadrifogli”, che non esistono? In farmacia? Dal medico di base? Le prenotazioni si aprono lunedì ma nessuno ne sa nulla. E comunque si aprono le prenotazioni – se si aprono – ma quando si comincia? Non si sa.

Consigli di lettura di Virginia Woolf, non ortodossi

“Dove dobbiamo ridere leggendo il greco?”. Sono tanti i problemi: “Non ci sono scuole, né predecessori né eredi”. Anzi, “è perfettamente inutile leggere traduzioni dal greco”. La traduzione non può che proporci “echi e associazioni”. E non è possibile rendere “gli accenti più lievi, il battere e il levare delle parole”. E “dove dobbiamo ridere leggendo il greco?” Ma poi ci prova, tanti problemi aguzzano l’ingegno.
“Quella greca è la letteratura dell’impersonale”. Ma “è anche la letteratura dei capolavori. Non ci sono scuole, né predecessori né eredi” – il che non è vero, ma dà l’idea: non si può farne una “storia della letteratura”. Con un’eccezione: “Almeno una generazione in quel tempo fortunato ha prodotto la massima esplosione di scrittori”.
In inglese il titolo del saggio suona “sul non sapere il greco”, è cioè un invito a un’indagine.  Ma si presenta come una lettura dei tragici greci, ambiziosa e confusa – la mancata traduzione delle citazioni greche non aiuta. Sul presupposto che “non sappiamo nulla” dei greci, come parlavano, come recitavano. Sappiamo solo di loro strane morti: Euripide sbranato dai cani, Eschilo colpito da un sasso. Woolf intanto li situa geograficamente: stanno al Sud, avevano luce e calore, vivevano un po’ come si vive ora in Italia, con le piazze e i passeggi, per cui “i piccoli fatti di ogni giorno vengono discussi in strada piuttosto che in salotto, e diventano teatrali”, roba da “persone loquaci”, con “quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito e di lingua perculiari alle razze del Sud”. Col che non ha risolto nulla, ma spiega la funzione del coro. E poi: un scrittura senza riscritture. “L’autore doveva pensare più all’insieme che ai dettagli”. Il suo pubblico era  “un popolo come quello ateniese, che giudicava a orecchio seduto in un teatro all’aperto, o ascoltando una diatriba nella piazza del mercato, molto meno incline di noi a spezzare le frasi e ad apprezzarle slegate dal contesto”.
Quattro saggi umorali, ma per questo anche originali, qualche dubbio o problema lo lasciano. Quanto sono fruibili le letterature “altre”, quella inglese per esempio per gli americani,  per i letterati americamo, perfino per Henry James. O quella russa per gli inglesi – e ogni altro, è da supporre: bisogna sapere molte cose prima di entrare in Cechov, Dostoevskij, Tolstòj – bisogna scoprire l’“anima” per i primi due, per Tolstòj la cosa è più complessa.
Peggio è con gli elisabettiani, la cui lettura viene ribaltata nel secondo saggio in più punti: che cosa sono, tirando le somme, e chi era chi, e chi doveva a chi. “Ci sono, bisogna ammetterlo,  alcune aree davvero straordinarie nella letteratura inglese, una delle quali è quella giungla, foresta o landa disabitata che è il dramma elisabettiano”. Peggio, “per il lettore comune una sorta di ordalia, un’esperienza traumatizzante che lo riempie di domande e lo tormenta di dubbi, deliziandolo e al tempo stesso affliggendolo”. Drammi all’apparenza “meravigliosi”, pieni di cavalieri, duchi e damigelle, che però “passano l’esistenza tra intrighi e delitti, si vestono da uomini se sono donne, da donne se sono uomini, vedono fantasmi. Perdono il senno e muoiono in grandissima profusione alla minima provocazione, proferendo – mentre cadono (ma non è come sarà all’opera? n.d.r.) – imprecazioni dal superbo vigore o elegia di disperata ferocia”. Ma, poi, sono “per lunghissimi tratti così intollerabilmente tediosi”. E uno: “Gli elisabettiani ci annoiano perché i loro miti sono tutti duchi, le loro Liverpool tutte isole mitiche o palazzi genovesi” E due: “Gli elisabettiani ci annoiano perché soffocano la nostra immaginazione, piuttosto che darle da lavorare”. Anche se, con tutti i loro limiti, sono lontani “dal tedio inflitto da un’opera teatrale del XVIIImo secolo”. Col recupero di John Ford, “Peccato che sia aan puttana”, con annotazioni, alle pp. 42-43, che sono note di regia, di programma di sala.
 “Come leggere un libro?”, “saggio letto in una scuola, il quarto saggio, non aiuta molto. Ma sì in un punto importante: lasciare che il rapporto col libro – stiamo parlando del romanzo, anche della poesia – si stabilisca direttamente, non per consiglio o imposizione del discente. Un’idea non male, specie per le letture estive consigliate.
Virginia Woolf, Non sapere il greco, Garzanti, pp. 91 € 4,90

giovedì 28 gennaio 2021

Ombre - 547

Trump esordì in politica estera con un approccio al dittatore nuclearista nordcoreano, Biden esordisce inviando le cannoniere nel Mare della Cina meridionale, a difesa di Taiwan. Il nemico n.
è ora la Cina? Non c’è innocenza.
 
Disney proibisce i suoi cartoni animati al suo pubblico, i bambini, per colpe varie di razzismo che
nessuno avrebbe subodorato. È il ridicolo il nuovo modo di essere occidentale, mondiale? Oppure no. Il mondo si adegua da quasi un secolo sempre al modo di essere americano, da Hollywood  all’informatica, ai social, ai tatuaggi e ai jeans sbucciati – anche alla pizza, che l’America dice americana. Ma in questo proibizionismo sembra di no: l’Asia non segue, nemmeno l’Africa – giusto l’Europa, un po’, per pavidità. È cominciato il declino americano?  
 
Ha fatto l’affare della vita rifilando Antonveneta al Monte dei Paschi, operazione talmente conveniente da portare al fallimento, di fatto, la più antica banca italiana. Ora ci prova a Unicredit: per rifilare il Monte dei Paschi alla (ex) più grande banca italiana? Questo Orcel è proprio quello che di direbbe un Costruttore, uno che fa la storia.  
 
Si fa la crisi politica per alchimie incomprensibili. A leggere i giornali e guardare le tv. Mentre il motivo c’è, e si sa: la “spartizione” del Recovery Fund. Ma non si dice. È la fine dell’informazione.
 
Non si ricorda crisi politica più sconcia, di mercanteggiamenti. Anche se per un business multimiliardario. Niente programmi, niente politica – schieramenti, indirizzi. Attorno ai 5 Stelle, maggioranza relativa di questo Parlamento, votati perché dovevano cambiare tutto. In peggio?
 
Non si sa che pensare del presidente Mattarella. Ha parlato di costruttori, e subito glieli hanno tradotti in “responsabili”, parlamentari sul mercato. Ha convocato Conte al Quirinale e Conte gli ha detto: ora non posso, devo girare un video propagandistico.
 
Conte capo di ben due governi, di orientamento opposto, pur non essendo nessuno, né un politico né una personalità. Un fatto senza precedenti, se non nella Quarta Repubblica francese, che ridusse la
Francia da grande potenza a niente, nella prima e nella seconda guerra mondiale. 
 
Si è ridotta enormemente l’attività delle farmacie in questo lungo inverno di pandemia. Il virus ha ridotto la morbilità. O male peggiore scaccia male minore?

La globalizzazione ha messo in crisi la democrazia - e la pandemia ha messo in crisi tutte e due”. È preciso su “La verità” l’ex ministro del Tesoro Tremonti, cultore della materia. Il coronavirus “ha hackerato il software della globalizzazione, il suo meccano mentale tutto positivo e progressivo. Superata l'emergenza sanitaria, restano gli effetti di crisi mentale, sociale ed economica” – è “la globalizzazione che da sogno si trasforma in incubo”.

Si inneggia ai fondi anti-crisi, che moltiplicano il debito, che non si potrà pagare, e presto neppure garantire. Quando la verità è agli occhi di tutti – nelle parole di Tremonti, monello del re nudo: Bush jr. e Obama hanno rimediato alla crisi del 2008 creando “una quantità enorme di moneta dal nulla. È quello che in Europa chiamiamo easing. E che sarà all'origine della prossima crisi.
 
L’ambasciatore a Mosca Terracciano si è vaccinato col russo Sputnik. Costretto per questo a giustificarsi: per “ragioni personali”. Mentre si sa: l’ambasciatore è uno dei pochi (il solo?) che ancora lavorano agli Esteri. Ministero diretto non a caso dal vagabondo Di Maio: fuori
dalla Libia, dall’immigrazione, da Pechino e Washington, perfino da Bruxelles, Berlino e Parigi, in freddo con Putin. Terracciano si occupa degli italiani in Russia, con una newsletter che spiega cosa
fare, in base alle decisioni del governo russo. Certo, non ci vuole molto, ma bisogna voler lavorare.
 
Per la terza volta nella Seconda (o Terza, o Quarta) Repubblica il governo cade con – per – la Relazione sullo stato della Giustizia: il secondo governo Prodi nel 2008, il governo Monti nel 2013,
e ora. La giustizia sarà un falso scopo, ma è un campo minato.

Nel mentre che l’Italia resta appesa alla maggioranza relativa dei 5 Stelle, e al loro Conte, con guru Grillo, la sindaca 5 Stelle di Roma  nomina assessore alla cultura un’amica, dei tempi del liceo,  Lorenza Fruci. Senza altra competenza. Sembra di sognare.
 
Alla vecchia amica Fruci la sindaca Raggi aveva già dato una consulenza alle Pari Opportunità. Con appannaggio più modesto, 27.570 euro, lordi, con questa funzione: “Indirizzo e controllo politico in ordine alle progettualità afferenti lo sviluppo delle politiche di genere per la promozione dei relativi diritti, per l’accoglienza e il sostegno delle donne”.

Lorenza Truci, neo assessora alla Cultura a Roma, vanta nel curriculum una “docenza su Arabesque e Burlesque come credito formativo per i giornalisti dell’ordine di Alessandria”. Ecco perché i giornali non si sa che farsene.  
 
Il governo ottiene la fiducia alla Camera, e dopo quattro giorni si dimette. Una ginnastica per umiliare ulteriormente il Parlamento.
 
Riccardo Nencini, senatore e segretario del Psi, salva al recupero dei tempi supplementari il governo Conte. Claudio Martelli lo accosta a Arlecchino servitore di due padroni: “Nela prima scena concede il simbolo del Psi a Renzi e fa gruppo con lui. Nela seconda fa gruppo con Renata Polverini Fiamma Tricolore e vota la fiducia a Conte – mentre dichiara che resterà con  Renzi….”. Replica Nencini: “Sbagliato. La Polverini è stata eletta a destra, io a sinistra”. La sinistra della destra, la destra della sinistra? Si capisce che il partito Socialista sia scomparso.
 
La sindaca di Roma Raggi in corsa per la rielezione inaugura chilometri di ciclabili deserte, moltiplica gli appaltini, dimette i non fedelissimi in giunta, e dà un premio di produzione ai 22 mila dipendenti del Comune, per un  anno in cui non solo “non lavorano” come vuole la passi, ma “nemmeno sono venuti” in ufficio. Nessun vecchio politico avrebbe avuto tanta immaginazione, è vero. E, certo, non è un caso di mafia al potere – mafioso Grillo? 

L’invenzione della salvezza

Un aneddoto promettente: un ragazzo belga rastrellato dalle SS nella caccia agli ebrei, sfugge alla fucilazione immediata e poi ai lavori forzati e alla deportazione inventandosi persiano. Qualcuno gli ha dato in cambio di un panino un libro persiano, e questo basta. Il tenente SS addetto alla mensa progetta di andarsene alla fine della guerra a Teheran, a ritrovare il fratello, e vuole imparare il farsì, le SS canaglia scambiano il ragazzo con un paio di carne in scatola, e il gioco è fatto: la lingua il ragazzo se la inventa, da ultimo coniando un vocabolario fatto coi nomi dei deportati.  
Un tipico aneddoto da commedia all’italiana. Ma Perelman, ucraino naturalizzato canadese, forse per non ripetere Benigni (“«La vita è bella» naturalmente l’ho visto, ma non mi è piaciuto e non ha niente a che fare con la mia pellicola”), forse deviato da una sceneggiatura frettolosa, di luoghi comuni, lo sciupa. In un racconto interminabilmente lungo, benché i tedeschi siano di una sola pasta, stupidi tanto quanto crudeli. Con un finale inavvertitamente rovesciato: il tedesco buono (di famiglia poverissima, vivevano vendendo “acqua calda”, si è arruolato perché le camicie brune sfilavano erette, pasciute e cantavano, e perché il fratello aveva creato problemi al regime, finché non era fuggito a Teheran) è gabbato dall’ebreo furbo.
Vadim Perelman,
Lezioni di persiano

mercoledì 27 gennaio 2021

Problemi di base esistenziali - 619

spock
 
Lavorare per vivere, ma vivere per lavorare – per scrivere per esempio?
 
“L’intera vita non è che vagabondare in cerca di casa.\ Quado non ci siamo più, l’abbiamo trovata”, T. Dekker,-W.Rowley-J.Ford?
 
“L’uomo è un albero che non ha cima ai pensieri, né radici nelle consolazioni; ogni sua forza vitale gli è data senza altro fine che il dolore”, J. Chapman?
 
“Essere qui è magnifico”, Rilke?
 
“Parmi\ un genere di pena\ il troppo godimento” – Caldara, “Gianguir imperatore del Mogol”?
 
“Il piacere e il bene sono la stessa cosa”, V. Woolf?


spock@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo (91)

La Disney vieta ai ragazzi, ed esclude dai suoi canali digitali e tv per bambini, cioè dal suo pubblico, i cartoni animati “Dumbo”, “Peter Pan” e “Gli Aristogatti”, perché “veicolano messaggi dannosi e razzisti”. Gli adulti possono vederli, ma preceduti dall’avvertenza: “Il programma include rappresentazioni negative e\o denigra popolazioni e culture”.
Le colpe. Dumbo canta in un cartone degli schiavi nelle piantagioni: “E quando poi veniamo pagati, buttiamo via i nostri sogni” – che sembrerebbe una sana critica: non abbandonare i sogni quando si passa da schiavi a salariati. Peter Pan chiama “pellirosse” i membri della “sua” tribù Giglio Tigrato. Gli Aristogatti hanno Shun Gon, un siamese con i denti sporgenti e gli occhi a mandorla. 
Bisognerà raddrizzare gli occhi agli asiatici. Oppure ritrarli come i texani, con la mascella quadrata. Oppure non ritrarli affatto – cancellare l’Asia?
 “Negli Stati Uniti, nonostante quello che si legge, il governo ha dato subito indicazioni chiare” sulle vaccinazioni contro il covid - Ornella Barra, proprietaria e gestora di Walgeens Boots Alliance, la catena di oltre 21 mila farmacie in tutto il mondo, che fattura 140 miliardi di dollari: “Il 18 dicembre i nostri farmacisti hanno iniziato a vaccinare ospiti e lavoratori di oltre 35 mila case di cura in 49 stati”. Stati degli Stati Uniti. Il 18 dicembre. Cioè, con l’inetto Tramp.
Non ne sapevamo niente - i giornali sono inutili? E delle farmacie per le vaccinazioni non si parla nemmeno. Anche perché il vaccino non c’è.
Il primo atto della presidenza Trump è stato il dialogo con la Corea del Nord. Il primo della presidenza Biden è l’invio di portaerei nel mare della Cina meridionale. Il secondo una inchiesta sulla origine e diffusione del covid.

Sola e abbandonata, nella Sicilia bella e primitiva

Un forte dramma, tra nipotina lasciata dai genitori emigrati per lavoro in Francia e nonna brusca, isolata, incattivita, che vive di espedienti, come rivestire i morti. In un luogo abbandonato, seppure bello – è l’isola di Favignana. Di borghi come borgate di periferia, derelitti, benché con feste, processioni, gelati e cannoli, e mare colorato – “Con i piedi nella sabbia” è il sottotitolo, dal romanzo omonimo di Catena Fiorello.
Non finisce bene. Cioè finisce bene, ma lontano dalla Sicilia – la storia si vuole siciliana, parlata in dialetto contratto, asillabico. Dove invece le piccole gioie sono sovrastate dalla indifferenza e dal dolore, dalla violenza. Dall’incomunicabilità – chi l’avrebbe detto, non era un tratto della condizione urbana, decentrata, microfamiliare? In anni si suppone postbellici, quindi remoti, ma non detti – salvo nella scena finale: il dramma si svolge come nella tragedia greca, senza finestre e senza porte.    
Il rovesciamento del paradigma umanitario della vita di paese, della piccola comunità di conoscenze e tradizioni comuni, non è una novità. È anzi ricorrente nella narrativa siciliana, che esclude la solidarietà - non la complicità, quella anzi è d’uso e celebrata, ma la comprensione, e il sostegno non interessato. Licata, al suo primo film, si adegua al “ciclo dei vinti”. Sull’onda probabilmente dell’estetica neo realista ritornante con la cinematografia asiatica che vince i premi, giapponese e coreana, delle vite ai margini: niente empatia nei mondi “primitivo” o povero, che invece ne sono dominati (anche distruttivamente, è vero).
Un racconto duro, che avvince malgrado la povertà delle immagini – o in virtù di esse.
Il film aveva debuttato bene, premiato al Festival di Taormina. Sfortunato poi al debutto in sala, programmato dalla distribuzione per il 5 marzo – che sarà vigilia di lockdown.
Paolo Licata,
Picciridda, Sky Cinema

martedì 26 gennaio 2021

Letture - 446

letterautore

Bach – Anche lezioso, lo leggeva Vernon Lee, la narratrice che fu anche studiosa della musica del Settecento (“La vita musicale nell’Italia del Settecento”). In “The spirit of Rome” ha “un organo a canne ben suonato, che fa un’imitazione musette di Bach. Una cerimonia piuttosto come i 6\8 del musette, forse un pizzico troppo dell’elemento danzante, ma grave e quasi perfetta”.
Bach ha un musette, almeno uno, nei “Pezzi facili”, che certamente la scrittrice conosceva. Vuol dire che Bach può essere lieve anche nei pezzi gravi.
 
Bronte
– Il massacro dei contadini a opera d Nino Bixio, che Florestano Vancini rivelò al grande pubblico col film del 1962, vede Sciascia in opposizione a Verga – cui peraltro si deve la sola testimonianza di quell’evento per molti anni. Nella novella “Libertà”, poco dopo i fatti, 1882, Verga rappresentava la vicenda – l’occupazione delle terre e le violenze sui padroni seguite dalla repressione garibaldina – come una tragedia, un evento del destino. Sciascia ha nobilitato nel film (secondo quanto del suo contributo ha testimoniato Vancini) la parte moderata, borghese, della rivolta, che Verga aveva rimosso.
 
Cinema
– “Movimento senza la vita” lo vuole Sciascia (“Angelo Musco e il comico”, in “«Questo non è un racconto»”, 114), nostalgico del cinema muto. E per ciò portato al comico, alla “comicità di Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Buster Keaton, Ridolini, nell’ureo silenzio del cinema, che era limite atto a potenziare il loro «meccanismo». Come pure “dei fratelli Marx, Eddie Cantor, Jerry Lewis, Totò, Macario e altri comici, il cui «»meccanismo  si avvantaggiava o scapitava della parola, consisteva in atteggiamenti, movimenti, gesti”.  
 
Coro
– Nella tragedia greca è la piazza italiana, spiega Virginia Woolf, “Non sapere il greco”, 9. Per capire Sofocle, argomenta, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra, piuttosto che di boschi e vegetazione”. Ma col sole caldo, per molti mesi, è tutta un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato, noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci”, irridenti, gioviali, sciolte “di lingua e di spirito”. E “questa è la qualità che per pima ci colpisce nella letteratura greca: il piglio fulmineo, beffardo, di strada”. Nela tragedia è il ruolo del coro.  
 
Dante
– Niccolò Tommaseo (“mi dolgono i tommasei”, lamentava lì’amico Manzoni, di cui era assiduo quasi ogni pomeriggio) ha ben tre volumi di “ragionamenti e note” attorno alla “Commedia”, di pp. 622, 735 e 732 rispettivamente, per un totale di oltre duemila pagine.

Humour – È intraducibile? È uno dei lampi di Virginia Woolf alle prese con l’inafferrabile greco, la lingua e la letteratura (“No sapere il greco”), nel punto in cui si domanda: “Dove dobbiamo ridere leggendo il greco?” Non ha la risposta, ma sa che “lo humour è il primo dono a svanire in una lingua straniera”.
 
Mussolini
– “Napoleone”, “poeta scienziato”, “va dando una nuova coltura al popolo italiano”, “ha debellato l’accademia nell’ultima delle sue incarnazioni: l’accademia del decadentismo”. Non si pone limiti Giacomo Debenedetti nell’elogio di Mussolini scrittore sul settimanale “Meridiano di Roma” il 9 maggio 1937 – un breve saggio riproposto integralmente dalla rivista “Paragone” nel 2007 e ora introvabile.
 
Pasolini
– “Una specie di sismografo” lo diceva Sciascia nel 1965, commentando il film “Il Vangelo secondo Matteo”: “Pasolini fa il «Vangelo: ed ecco che comincia il dialogo tra comunisti e cattolici. Il che, confesso, mi dà grande inquietudine”.
 
Riso
– Si sottovaluta nei tanti riferimenti quello a Hobbes, che pure è il più radicale: “tratto caratteristico della pusillanimità” lo dice, di chi è vanitoso e insieme aggressivo, presume di se stesso in confronto con gli altri specie se inermi o menomati.
 
Per Pascal invece, che lo usa contro i gesuiti - il lassismo morale -  smaschera il fatuo e l’inutile.
 
Shakespeare
– “Insuperabile nella crudeltà” lo dice Tabucchi (“Viaggi e altri viaggi”). In effetti.
Ma Marlowe lo supera, e gli altri concorrenti – gli “elisabettiani” non precorrevano la guerra civile e il macellaio Cromwell?
Oppure: tutto non è già in Seneca?
 
Sherlock Holmes – È don Chisciotte, col fedele Watson-Sancho Panza. La versione stravolta di Robert Downey, stralunato, folle, imaginifico, guitto, saltimbanco, rinvia al modello originale della coppia: don Chisciotte e Sancho Panza. Più o meno inconscio in Conan Doyle – ma era un gran lettore d a ragazzo.  
 
Viaggio – È una riscoperta. “Ogni luogo nel quale arriviamo in un viaggio è un sorta di radiografia di noi stesai”, Tabucchi, Viaggi  altri viaggi”, 183: “Un luogo non è mai solo «quel» luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi”.
Tabucchi ci arriva sul verso di Rilke: “Mi riconosci tu, aria, tu che consci i luoghi che una volta erano miei?”. Il luogo, continua, “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati” – il suo luogo del cuore erano le Azzorre.
 
“Il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo”, nota Mario Praz mettendo a confronto un viaggio in America e uno in Sicilia.

Zola - La moglie di Zola, Alexandrine, ragazza-madre a vent’anni, ha dovuto abbandonare la sua neonata agli enfants trouvés e non ha più potuto avere figli. Si attaccherà a quelli che del marito, Denise e Jacques. Che Zola aveva avuto, in costanza di matrimonio, con la lavandaia. Lei contentandosi di vivere la sua vita grazie ai soggiorni autunnali, i tre mesi settembre-novembre, dagli amici in Italia. Devotissima e amatissima dai figli di lui, sempre molto materna.

etterautore@antiit.eu

Giallo in grigio

Alla ricerca dell’effetto “Twin Peaks” - sono anni che Rai 1 insegue le atmosfere sospese di Lynch, ma, sembra, senza crederci – con effetti misti. Questo “Commissario Ricciardi” ne è la summa.
Il film si apre con la scena madre immaginata da De Giovanni, il creatore del commissario: il delitto all’Opera, tra “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci”, quando all’urlo in scena “Hanno ammazzato compare Turiddu” si accoppia l’urlo fuori scena della sarta che scopre il morto. Naviga poi sul nulla: il grigio è dominane, e i silenzi. Ricciardi è solitario, cinereo, mutangolo. E vaga per angoli e sotto cieli plumbei, bagnati anziché no, e deserti. Interloquendo poco, con caratterizzazioni scontate: napoletane, fasciste, e fascionapoletane. Con conclusione tronca, dopo tanto girovagare, in due scene brevi: l’“illuminazione”, e la confessione – di personaggio di cui non sapevamo nulla (questo trasgredisce la regola fondamentale del giallo).
Molto impegno, e grande sforzo produttivo, per un film d’epoca, anni 1930 a Napoli, tra costumi, automobili, ambienti, arredamenti. Si supporrebbe quindi con molta cura. Poteva riuscire meglio. C’è pure qualche incongruenza. Nel grigiore lampi di un Golfo coloratissimo da cartolina illustrata, col Vesuvio spostato al corno inferiore, su un mare ceruleo. O da ultimo il commissario, uno che vive guardando dalla finestra, in colloquio intimo con la femme fatale, naturalmente “amante del Duce”, alla quale dà del tu, in automobilina stretta, lui che solitamente non guida, soli davanti al mare – è la scena di un’altra puntata?
Con un’ottima resa di Serena Iansiti, la dark lady che invece non lo è – o lo è? Con spreco di Peppe Servillo e Antonio Milo.
La serie promette “un viaggio nella Campania anni Trenta”. Per ora no: la produzione d’epoca limita anzi gli esterni. Qui sappiamo che è Napoli, ma potrebbe essere qualsiasi altro posto. Il San Carlo teatro del delitto si vede poco. Il palazzo Pallavicini dobbiamo saperlo che è il palazzo Pallavicini.  
Alessandro D’Alatri,
Il commissario Ricciardi, Rai 1

lunedì 25 gennaio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (447)

Giuseppe Leuzzi
 
Tabucchi evoca in “Viaggi e altri viaggi”, 191, il nostos  furfantesco di D’Annunzio: “«Perché non son io co’ miei pastori?», al quale rispose impareggiabilmente Leo Longanesi: «Perché alloggi al Grand Hotel di Montecarlo»”.

Cercando di spiegarsi l’atipicità della letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud. Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra, piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato, noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci: sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito e di lingua peculiari alle razze del Sud”.

Giallo etnico

Rileggendolo in edicola, Sciascia si scopre autore di gialli etnici. Tornando alle prime letture dei gialli (noir in realtà, storie di violenza, non il whodunit, il chi è il colpevole britannico), attorno al 1970, quelli di Sciascia con quelli classici, di Chandler e di Hammett, il contrasto risaltava già allora forte: quelli di Sciascia sono – erano – “siciliani”, per una caratterizzazione accentuata, quasi eccessiva (caricaturale), quelli americani no, anche quando il delinquente era nero, o irlandese, o ebreo. La Sicilia della “sicilitudine” affliggendo di un’identità rabbiosamente identitaria, e naturalmente dissipata, perdente – “lu munnu va n’arreri” di Domenico Tempio.
La cosa si è ripresentata con la Sicilia di Camilleri, che è invece come tutto il mondo – come la Palermo di Piazzese. Mentre si sviluppa il tentativo di mobilitare come fattore etnico la calabresità – in corso nel Millennio, dopo un primo rapporto dei servizi di intelligence una dozzina d’anni fa, costantemente poi ripreso, da ultimo dalla Dia nel Rapporto 2020, che vuole la ‘ndrangheta supermafia mondiale, dalla Russia alla Terra del Fuoco.
Non c’è mai stato un giallo etnico a Napoli, che pure pullula di narrazioni etniche. De Giovanni, per esempio, se ne guarda - pur cattivo con la sua città, per l’inciviltà, la sporcizia, il disordine, l’improntitudine, la supponenza. La serie “Gomorra” e Saviano sembrerebbero dire il contrario, ma non biasimano, fanno “spettacolo”, esibizione di violenza, già nel linguaggio.
Dei film di mafia da ultimo era stanco lo stesso Sciascia. Fino a negare, se non era civetteria, di avere visto i film tratti dalle sue opere. A un intervistatore che glielo chiedeva nel 1987, Sebastiano Gesù, degli Incontri con il cinema di Acicatena, premetteva: “Sa che io non vedo i film sulla mafia, non li ho mai visti”. E all’insistente “avrà visto almeno i film tratti dalle sue opere”, ribadiva secco: “Nemmeno quelli. S’immagini che «Il giorno della civetta» l’ho visto due anni dopo la sua uscita sul circuito commerciale. L’ho visto a Palermo, al cineforum Casaprofessa, dai salesiani. Sono stato invitato, sono venuti addirittura a prendermi da casa e così ho avuto modo di vedere il film”. Concludendo sarcastico: “Eppure era un buon film” (la risposta a S. Gesù è ora in “Questo non è un racconto”, p. 155) 
 
I pugnalatori
L’Italia è stata subito divisa tra Nord e Sud anche in America, quando l’emigrazione vi si allargò. Dalla delinquenza, piccola e grande. Tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento, con radici aeree ancora negli anni di Kennedy, è - fu - napoletana, siciliana, calabrese. A danno, in principio e per almeno tre decadi, soprattuto degli emigrati, operai, artigiani, piccoli commercianti, taglieggiati nelle paghe e nelle rimesse, con crudeltà.
Lo è – lo è stata - nell’ordine. Oggi della delinquenza napoletana non si parla più, perché la “napoletanità” non va, non seduce – c’è rimasto solo Saviano. Di quella siciliana, invadentissima da Petrosino a Sciascia e al “Padrino”, si parla un po’ meno: la “sicilitudine” ha stancato e comunque è fuori quadro, effetto Montabano - e i vigneti passati in mano ai veneti, che sanno come fare (anche se con fortune alterne, vedi il Palermo calcio) e i vini siciliani hanno portato alla pari con i piemontesi, i veneti, i toscani? Mentre si ingigantisce la ‘ndrangheta - o le ‘ndranghete, il malaffare è piuttosto anarcoide. A dismisura: non c’è altro orizzonte, in Calabria e fuori. 
Eccellevano nell’uso dello “stiletto” i delinquenti meridionali a New York, del pugnale. Uno di essi, Francesco “Frank” Filastò, fondò pure una Scuola di Scherma, dove si insegnava ai “picciotti” l’uso dello “stiletto”. Come “I pugnalatori”, il romanzo storico che Sciascia scrisse su certi documenti (piemontesi?) che Lorenzo Mondo gli aveva trasmessi, una non altrimenti nota “setta” che agiva a Palermo dopo l’unità. Quelli d’America erano invece addetti al “pizzo” che ogni italiano doveva pagare, manovale, artigiano, commerciante, dapprima, e poi al pizzo insieme con la prostituzione, l’azzardo, e l’alcol.
Della fama di pugnalatori, nell’Italia divisa in America tra Nord e Sud, era stanco pure Sciascia, nel “trattamento” cinematografico del 1972 per Sergio Leone, “C’era una volta l’America” (ora in “Questo non è un racconto”, p. 5): “Essere siciliano consiste nell’avere un coltello, nel maneggiarlo, nel farsene ultima ratio contro gli altri. L’America ha relegato i siciliani alla fama di accoltellatori”. Era stanco degli stereotipi in genere sulla Sicilia, specie al cinema. Criticando nel 1964 il film di Germi “Sedotta e abbandonata”,  se ne dice infastidito: dà “della  Sicilia, almeno della Sicilia che io conosco, un ragguaglio piuttosto arretrato e, in qualche tratto, perfino immaginato”.
 
Le vigne terrazzate, dalla Costa Viola al Giura
Viaggiando nell’inverno del 1981 da Lione verso Losanna Sciascia (v. “Questo non è un racconto”, p.94) riflette: “Sempre la visione delle vigne ben coltivate che si arrampicano alla montagna”, in cerca d’insolazione, “mi porta a considerare quanto di precarietà, di spreco, di insensatezza presieda invece alle cose italiane”. Confrontava gli anfratti del Giura, è probabile, inconsciamente con i terrazzamenti di zibibbo che nei suoi primi viaggi in treno sul continente avrà visto rifulgere dorati tra Scilla e Bagnara, poi abbandonati, perché non si potevano lavorare con le macchine, e dilavati – come si vedono oggi, una miniera ferrovecchio. In Svizzera, nota Sciascia, “sono delle strisce di terra ad inclinazioni quasi impossibili, ma contenute da pazienti e solidi terrazzamenti; lavorato e nettissimo il suolo, curatissime le piante” – erano così sulla Costa Viola. E rileva: “Certo, non vi si va con il trattore, tutto è a fatica d’uomo”, anche in Svizzera è come “Lenin diceva: «La terra è bassa», per dire quanto greve la fatica del contadino”. Con un facile sospetto: “Con ogni probabilità, a lavorarla sono quegli stessi che alla terra bassa della Sicilia o della Calabria sono fuggiti”.
Conclusione: “Così, nell’Italia meridionale non ci sono che trattori, quando ci sono; e in Svizzera i contadini”.
 
Calabria
Il mite Augias le retate del giudice Gratteri lo mandano fuori onda. In tv da Rai 3 si lascia andare:  “La Calabria è una terra perduta”, “ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile”. Richiesto di scuse a mente fredda, dà questa spiegazione: l’opinione se l’è formata all’ultimo voto regionale, che non ha premiato il candidato del Pd. Cioè, conferma che la bocciatura del candidato Pd era giusta?
Il problema della Calabria è che anche i suoi critici non sono granché?
 
Easyjet per propagandare il suo volo su Lamezia paga questa pubblicità: “La Calabria, terra di mafia e terremoti”. Piove sul bagnato, si dice. Ma che pubblicità è - a parte la cattiveria: a tagliarseli?
Per il copywriter dell’agenzia cui Easyjet ha confidato la campagna pubblicitaria la Calabria migliore è mafia e terremoti?
 
Fu chiamato “Calabria” un piroscafo della compagnia scozzese Anchor Line, varato il 9 aprile 1901 per la rotta transatlantica - viaggio inaugurale Livorno-Napoli-New York il 23 maggio.  L’emigrazione dalla Calabria, restia nel secondo Ottocento, quando era invece di massa nella valle padana, in Liguria e nel Triveneto, diventava consistente (ammonterà a circa 50 mila espatri nel 1905, per due terzi verso il Nord America) e la Anchor puntava a conquistarsela.
Le immagini del “Calabria” illustrano il sito storico della Anchor Line, e sono esposte a Liverpool, al Meyerside Maritime Museum.
 
Il Messico ha fatto un’industria del chili, il peperoncino – varietà, sapori, usi. Tabucchi ne fa un elenco dettagliato in “Viaggi e altri viaggi”: il chile poblano, il secoa, il dulce, il guëro , il serrano, il jalapeño, il chile de árbol – “potrei continuare”, dice lo scrittore, ma si ferma a quello che chiama il pontifex maximus, il chile habanero. La Calabria non distingue, basta che sia piccante.
Incapacità non è, c’è ingegno. Forse il bisogno non è come dicono le statistiche.
 
Quarantenne agli arresti domiciliari a Crotone scappa di casa e si consegna ai vicini Carabinieri: “Preferisco tornare in prigione che subire mia moglie”. Lo condannano per questo in Calabria a due mesi, per evasione. Ma la Cassazione a Roma lo assolve.
Poi si dice che in Calabria non c’è giustizia.
 
Andrea da Barberino, primo Quattrocento, grande divulgatore di testi francesi, di testi cavallereschi, del ciclo carolingio e delle tresche “materia di Bretagna”, “I reali di Francia”, “Il Guerrin Meschino”, ha anche un poema “Aspramonte” o “La canzone d’Aspromonte”. Ma nessuno se ne occupa, non in Calabria, non della “Canzone d’Aspromonte”.
 
Il nostos vi si pratica a rovescio. Répaci, che ci tornò fisicamente, tenendo aperta una casa rupestre e romantica, su un costone sassoso bonificato con dispendio di soldi e di energie, non vi trovò estri creativi. Alvaro, che se ne tenne sempre lontano, già dalle medie, ne originò molti umori – e quelli, alla rilettura, più duraturi.
Bisogna “tornare” alle origini, ma a distanza, il radicamento va bene con juicio?
 
Il brigante Musolino a processo a Lucca ammaliò tutti, anche Pascoli e D’Annunzio, e Cesare Lumbroso, che pure lo considerava “un criminale nato”. “Musolino Mania!” poteva intitolare un giornale loale americano, “Uthica Herald Dispatch”, il 7 agosto 1902 – cit. in Nicaso-Barillà-Amaddeo, “Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America”.   
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