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domenica 28 agosto 2011

La nausea di Giovanna, prima di Sartre

Un romanzo sul disagio di vivere che avrebbe potuto diventare “La coscienza di Zeno” del secondo Novecento. Un documento, se si vuole, degli anni Trenta, ma ben più radicale de “Gli indifferenti”. Di una ragazza contro gli uomini, negli affari di sesso e in tutti gli altri. E contro le donne. Contro il padre, il fratello del padre, i propri fratelli. Contro la mamma, le sorelle e la famiglia, l’amore, l’amicizia, la generosità disinteressata. Odio fisico, la nausea di Sartre anticipata. Una storia pubblicata postuma, che si continua a suggerire autobiografica, per un minimo successo di scandalo, mentre cozza con la vera biografia, di giovane scrittrice determinata, cosciente del proprio disagio.
Capita di scoprire, spesso non per caso, che il neo realismo viene dal fascismo. E che opera come la livella di Totò, una mannaia a cui non si sfugge. O un antiparassitario, che dissecca nel mentre che purifica. Così i suoi tre santi protettori a Milano, dove Giovanna Gulli ventenne si era trasferita da Reggio Calabria per fare la scrittrice, Zavattini, Marotta e Répaci, ne hanno segnato il destino postumo: se hanno imposto la pubblicazione del romanzo a Garzanti, nel 1940, lo hanno consegnato all’indistinto del neo realismo. E all’oblio: oggi nessuno sa di “Caerina Marasca”, né di Giovanna Gulli. Il sito Calabria on line, peraltro benemerito nella registrazione dei letterati della regione, la fa morire a 23 anni nel 1917. E del romanzo, che rappresenta solo figure maschili positive, dice che “mette sotto accusa il dominio maschile, non c’è un solo personaggio maschile che sia descritto in maniera positiva”.
La narrazione è – tra i tanti punti di originalità - non femminista (e neppure una delle cosiddette “scritture al femminile”). Per cui la Gulli è trascurata dal ricco filone di studi di genere. Con molti appigli pauperistici, che fatalmente la indirizzano al neo realismo. Ma senza nulla in realtà di vittimistico, e senza nulla di rivendicativo: la sua abiezione è l’impossibilità di essere. Pane! è il leitmotiv della prima parte, la fame. La malattia e la morte della seconda. La prostituzione della terza. Se ne parla a ogni pagina, con insistenza, e detti così sono tre travi di resistenza di quello che sarà chiamato il neo realismo. Ma il collante è il disagio di vivere, l’impossibilità: dell’amore, dell’amicizia, della famiglia. L’incapacità di essere, di “soffrire i sentimenti” (312). Con l’aggiunta: “Dire che Caterina amava è poco: ella era pazza d’amore”. Il tutto può fare un melodramma, senza musica per giunta, una “Signora delle camelie” verbale del Novecento. Oppure una figura maestosa, l’“Anna Karenina”, col piglio devastante degli “Umiliati e offesi”. E questo è: la Gulli sa essere Tolstòj e Dostoevskij – anche se non beneficia del vago esotismo che si lega al mondo russo.
Sa pure che la cosa meraviglia, e non lo contesta: “I sintomi di questa malattia sono innati e latenti”, dice della sua storia (345). Ma con limiti: il peggio della malattia è “non riuscire a uccidere il pensiero”. La storia vera del romanzo è questa. C’era in Italia, nel 1938, una storia di disagio esistenziale senza fondo. Di un scrittrice ventisettenne che stava per morire all’improvviso di polmonite, Giovanna Gulli. Ragazza volitiva, che a diciannove anni si è trasferita da Reggio Calabria a Messina, per fare la segretaria nella sede di un’agenzia giornalistica, e dopo un paio d’anni a Milano, per fare la scrittrice. Dove ha cercato e ottenuto l’attenzione di Zavattini, che ne scriverà, Répaci, Marotta, Giuseppe Longo, direttori d’importanti periodici, ha pubblicato racconti e collaborato a trasmissioni radio per bambini. Questo romanzo non era piaciuto ai maggiori editori, malgrado gli illustri patrocinanti, e uscirà postumo da Garzanti. Con estesi tagli. E con la lettura neo realistica che lo condannerà all’ammasso delle opere minori – ha un senso che il neo realismo nasca col tardo fascismo: è l’annegamento nella mediocrità, l’indistinto del “sociale”, inteso “siamo tutti buoni con i poveri”.
Non sappiamo cosa sarebbe stato il romanzo senza i tagli. Quello che ne resta è comunque una storia di forte disagio di vita. Non c’è altra narrazione cupa come questa, segno del tempo. Di allora come di oggi, anche se non c’è più la “fame”: lo sradicamento è oggi perfino radicale, il vuoto di vita. Non è una storia di povertà che conculca l’ansia di riscatto sociale, o di sopraffazione – che purtroppo la nota a questa coraggiosa riedizione ribadisce, “la ricerca e la speranza di Caterina di «esistere meglio, al meglio»” legando alla “società stravolta dal bisogno e dalla sopraffazione”. Il rifiuto è radicale, “naturale”, senza scampo. La povertà vi è derisa, con cattiveria, e così ogni altra consolazione. Della generosità si traduce il calcolo, dell’amore la sofferenza, dell’avventura la fatica, della stessa disperazione l’egoismo (del padre,della madre), in uno stato d’ipocondria costante e cumulativo. La città è Napoli. Ma è una “simil Napoli”: la storia si vuole delocalizzata e spersonalizzata. È decontestualizzata, nei luoghi, nelle occupazioni, nel ceto, o le abitudini sociali, di proposito, con protervia, una sorta di metafisica del disadattamento.
Giovanna Gulli, Caterina Marasca, Rubbettino, pp. 387 € 5,90

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