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lunedì 2 novembre 2009

Il mondo com'è - 25

astolfo

Antipolitica – È la politica del più forte. La politica è la leva della giustizia, naturalmente democratica, l’antipolitica è la giustizia della forza.
Coltivata in Italia per decenni in ambito liberale e radicale come critica della partitocrazia (Maranini, Scalfari, Ronchey), è diventata negli anni Ottanta scudo e punta di lancia dei “padroni”. Cefis ha aperto la strada solitario negli anni Settanta, Romiti (Agnelli), De Benedetti e poi Berlusconi hanno fatto la corsa e infine l’hanno vinta. Con i media, e il sottile controllo degli apparati della legalità. All’insegna della semplificazione della politica (bipolarismo) e della governabilità. In realtà al solo fine di “occupare la politica”, non di renderla efficiente – e anzi sempre contrastando ogni autonomia della politica.
Successivamente, dissolvendosi la critica laica nel compromesso storico, vi ha inoculato il veleno dell’antipolitica. Per cui il partito Comunista, che aveva un terzo degli amministratori pubblici in Italia, li ha abbandonati al discredito preconcetto, lieto come un qualsiasi partito d’opinione di fare la lezione di morale alla storia. Gli amministratori pubblici comunisti, un esercito, si trovarono esposti al discredito non per colpe specifiche ma in quanto professionisti della politica – a opera del loro stesso partito, dei compiaciuti salotti romani del loro partito.
Rapidamente ha poi elaborato un’antipolitica di secondo grado, quella delle caste, non dipendenti dalla politica ma ad essa non estranee. che denuncia nel mentre che le pratica, in una sorta di gioco dell'oca.

Antipolitica è anche la faziosità, che connota tutta la storia della Repubblica. Lo storico De Felice la addebita all’antifascismo. Non in quanto fenomeno storico della resistenza al fascismo e in guerra, ma in quanto categoria costituzionale, della Costituzione materiale del dopoguerra: la demonizzazione dell’avversario politico, la conflittualità sociale esasperata, sempre e comunque, l’assemblearismo inconcludente, che si soddisfa nel rendere impossibile il governo (il “governo attraverso la crisi”). Ma essa è comune, si può aggiungere, oltre che alla galassia ex comunista, anche a quella ex confessionale. Di cui sono espressione i gestori dell’opinione pubblica, la Rai e i grandi giornali. Che in Italia sono tutti padronali, e quindi estendono la faziosità - l’impossibilità di governare - a un fronte non più antifascista ma di interessi costituiti. Interessi economici e – chiudendo il cerchio con De Felice – anche politici, i cosiddetti feudi confessionali e postcomunisti.

Comunismo – È, è stato, la crisi della ragione. La riduzione della ragione a tecnica del potere, cioè del desiderio, del consenso. Il settarismo ne era, e ne è, il pilastro: indistruttibile. Sempre trucemente vivo, contro i socialisti e ogni altro riformista. Lo è stato e lo è pure nel terrorismo: da Guido Rossa e Tobagi a D’Antona e Biagi. Altrove, in Germania, in Francia, il terrorismo brigatista dichiarò guerra ai “padroni” e a nazisti, in Italia ai socialisti e ai riformisti.

Dopo il crollo di fine 1989 si realizza quanto esso abbia imposto d’abietto all’Europa: non trova un solo difensore. Ma resta forte nei cuori, perché ha monopolizzato la protesta e la speranza, la critica, l’opposizione, il chiamarsi fuori, che si lega alla speranza. Ha inflitto più sofferenze di qualsiasi altro regime o ideologia, con pochi o nulli benefici, ma resta nei cuori perché ha il monopolio della protesta radicale, del rifiuto. La sua forza è il chiamarsi fuori.

Germania – Dopo vent’anni si vede, con la riunificazione tedesca l’Europa è tornata indietro di un secolo. Alla Mitteleuropea pantedesca delle buone intenzioni. Al concerto delle potenze europee: Merkel, Sarkozy, Brown sono patetici, eppure si concertano. Alla “Germania grassa ma impotente” di Churchill. Dentro la One World Vision di Roosevelt.

Musei ovunque e per tutto, per ogni specie di ricordi: popolari, sociali, materiali (di arti e mestieri, di oggetti, di condizioni di vita), zoologici, botanici, sempre nazionali, archeologici, etnologici, militari, letterari, politici. È un’ansia curiosa – patologica? – questa ricerca oggettivizzata di identità. Voler riempire un’incertezza (vuoto?) con serie ed elenchi di oggetti classificati e autenticati professionalmente (scientificamente).

Fra i tanti legami sotterranei fra italiani e tedeschi c’è il totalitarismo – la richiesta di totalità alla politica. I tedeschi li hanno avuti tutt’e due, il nazismo prima, lo stalinismo dopo. Gli italiani non ci sono riusciti. Ma non disperano: se in tutta la Germania, che è così grande, non si contano ora più di due milioni di comunisti, in Italia ce ne sono ancora più di dieci, in piena crisi del comunismo, e anzi la vocazione nazionale è al sovietismo, al potere insindacabile. Non per nulla gli italiani sono stati fascisti per un numero di anni doppio dei tedeschi,

Politicamente corretto – È l’eloquio dell’indistinzione, di generi, culture, confessioni, che s’impose alla fine del secondo millennio nel quadrante nord-occidentale, Usa-Europa. In contemporanea con la globalizzazione, che è l’assetto dell’economia imposto dal quadrante nord-orientale, Usa-Cina. Ma per un riflesso interno allo stesso Occidente: è la difesa, debole, della politica nell’età dell’antipolitica. Ne segna il disfacimento, dopo la delegittimazione dell’Auctoritas al tempo del Vietnam e di Praga, e ne tenta il recupero delle forme esteriori. In linea con la parallela falsificazione del sapere e della storia – ora nelle forme del relativismo e del revisionismo. È un surplace della politica, uno standstill, un segnare il passo, non ininfluente: la difende nel mentre che ne persegue e sancisce l’irrilevanza, è cioè la politica dell’antipolitica - indecisione, indistinzione, e quindi la forza invece dell’equilibrio (giustizia).

Priorità – L’Italia arranca da trent’anni, da quando ne perse dieci nei “nuovi modelli di sviluppo” che Moro e Berlinguer divisavano per sostenere con l’austerità (le urgenze, le priorità) la loro politica di compromesso. Sostenuti da Ugo La Malfa, l’economista, il quale vedeva il diavolo nella tv a colori. Come se agli italiani fosse mancato il pane. Senza capire che, al dieci o venti per cento degli italiani cui difettava, il pane poteva arrivare più abbondante e sicuro solo producendo e vendendo televisori e stereo, in maniera da assorbire i disoccupati (13 per cento) e incrementare le pensioni inferiori al minimo vitale (7 per cento – pensionati al minimo senza altri redditi).
Fuori dalla politica, questa è l’economia pensata in termini di sopravvivenza. Ma quanto c’entra in questa propensione il senso di colpa per i guasti e gi sprechi che accompagnano l’economia dei consumi di massa, e quanto invece l’ancestrale diffidenza verso la storia, verso ogni soluzione pratica? Che si dice utopia ed è voglia di dissoluzione?

Università – “Non avevo l’ulcera quando facevo la prostituta, mi è venuta all’università” (Kate Millet, “Prostituzione”, 29)

astolfo@antiit.eu

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