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martedì 19 settembre 2017

Čechov si voleva comico

Čechov si voleva comico
In Russia si ride, anche. Come altrove. Un po’ meno. O un po’ di più, con o senza vodka. Specie in Čechov, che stando alla testimonianza circostanziata di Camilleri che apre la raccolta, le sue commedie intendeva propriamente commedie e non drammi. Confermando un sospetto che pure balza evidente alla lettura, per un tratto wildiano netto, di satira bonaria e partecipe, in tutta la sua opera - eccettuato il reportage da medico giornalista dalla colonia penale di Sakhalin. E per questo litigava spesso con Stanislavskij, il regista.
Umoresca è un genere musicale, Schumann e Dvoràk lo hanno praticato, un Lied scherzoso. Su testo in versi o in prosa, e anche, come spesso per questo Čechov, in immagini, qualcuna anche di sua mano. Storie sconclusionate, che preludono al teatro europeo dell’assurdo del secondo Novecento, le vuole Carla Muschio, che le ha scovate, le propone e le inquadra criticamente - lei non russista, e nemmeno čechoviana, per prima in Italia, con una traduzione straordinariamente vivace (non c’è più ordine nemmeno negli studi…). Tutto in realtà può confluire nel teatro dell’assurdo, che è la condizione elementare dell’essere. Queste prose di Čechov si segnalano perché già čechoviane, in nuce e per esteso, nelle tematiche e negli svolgimenti: gradevoli e pensierose.
È Čechov fin dagli inizi, anche in prose svelte come queste, scritte per motivi alimentari, per aiutare la famiglia in difficoltà a Mosca mentre lui vi studiava la medicina. Forse nella datazione di Vasio – i testi di questa raccolta non sono datati - “la lenta metamorfosi di Čechov da scrittore faceto a scrittore serio si compì tra il 1883 e il 1886”. Quando cioè prese a scrivere e a proporre racconti seri agli editori, mentre ancora continuana a sfornare “Umoresche”, un’attività avviata con varie riviste nel 1880, subito dopo l’arrivo a Mosca. Ma comunque senza abbandonare il faceto, che è una sottolineatura di tutta la scrittura čechoviana. Con molto latino, tutto bene intonato, sempre esattamente compitato.
Un libro prezioso, anche come oggetto. Di contenuti non eccezionali. Facezie, freddure, lazzi, specie del mondo dello spettacolo e dell’avanspettacolo, il repertorio consueto dei giornali satirici: non mancano il colmo dei colmi, il cornuto, e le gioie del matrimonio, compresa la suocera, attorno a “lei” spendacciona e traditrice. Moralità, non tutte brillanti – le raccolte di facezie sono pericolose, dal “Piovano Arlotto” in poi. Ma letture d’autore. Con giochi di parole. E parole in libertà – “con la scusa che, dopo aver composto il testo, il tipografo ha lasciato cadere a terra tutti i caratteri, le parole si sono mescolate”. A tratti un documento. Della Russia in quegli anni. Di sé. Gli abbozzi teatrali si rileggono come un programma, le “Regole per la villeggiatura, o la “Trrragedia terribilmente, spaventosamente disperata, col suggerimento del vero impresario Lentovskij al Grande Autore: “Sfruttate i luoghi comuni, come fanno i vari Rocambole e i vari conti di Montecristo.... Di una cucina comunque sofisticata, in ogni senso: invenzione, scrittura, situazioni.
Curiosamente, spesso altaniano: “Dopo pranzo ho pensato allo stato deplorevole dell’economia europea. L’ho invitata al risparmio”. Un Coquelin, anche, molieresco: “La nostra vita può essere paragonata a un folle che si trascina da sé a una stazione di polizia e denuncia se stesso”.

Anton Čechov, Umoresche, Barta, pp. 224, ill. € 12

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