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giovedì 8 maggio 2025

Verità e pregiudizio

Viviamo di “bias di conferma”, di propensione alla conferma – di pregiudizi. Crediamo quello che sappiamo – che presumiamo di sapere. Quando ci siamo formati un’opinione, di noi stessi e degli altri, ma anche degli eventi, quella è la (nostra) verità, e non cambia. Non facilmente. Un “fatto” di cui non si tiene abbastanza conto, nell’informazione e nell’analisi politica. Che è diventato quasi fisico, si può aggiungere, materiale, con la “rete”, per la natura incontrollabile della rete stessa, la libertà che ne fa il pregio, e con google (i blogger, i social, la disinformazione).
Recensendo tre libri usciti otto anni fa (non tradotti in Italia), di due coppie di psicologi, “The Enigma of Reason” di Hugo Mercier e Dan Serber, “The Knowledge Illusion: Why We Never Think Alone”, di Steven Sloman e Philip Fernbach, e “Denying to the Grave:Why We Ignore the Facts That Will S av Us”, di Jack e Sara Gorman, l’autrice, premio Pulitzer per la saggistica divulgativa, rafforza le loro conclusioni con gli studi analoghi effettuati mezzo secolo prima all’università di Stanford. Con due ricerche, nel 1975 e “qualche anno dopo” (nel 1980, n.d.r.: Anderson, C.A., Lepper, M.R., & Ross, L., “The perseverance of social theories:  The role of explanation in the persistence of discredited information”).
Nei due esperimenti di Stanford agli studenti veniva posto un dilemma con una doppia verità. Poi si stabiliva chi si era approssimato a quella giusta. Poi si rivelava che tutto era una messinsecna, che non c’era una vera graduatoria di chi aveva indovinato la verità e di chi non c’era riuscito. E si invitavano gli studenti a rivedere le loro conclusioni e a motivarle. La maggior parte confermavano la risposta precedente.
Agli studenti “furono presentate coppie di biglietti di suicidio. In ogni coppia, un biglietto era stato scritto da una persona a caso, l’altro da una persona che si era successivamente tolta la vita. Agli studenti fu chiesto di distinguere i biglietti autentici da quelli falsi”. Alcuni ci indovinarono, fno a 24 casi su 25. Altri “identificarono la nota autentica solo in dieci casi”. Si rivelò allora che metà degli appunti erano “autentici - autentici – erano stati ottenuti dall'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles”, ma che “i punteggi erano fittizi”.  Si è spiegato che “che il vero scopo dell'esercitazione era valutare le loro risposte al pensiero di avere ragione o torto”. E si chiese “agli studenti di stimare quanti biglietti di suicidio avessero effettivamente categorizzato correttamente e quanti, secondo loro, uno studente medio avrebbe indovinato”. L'esito fu che i “migliori” si confermavano migliori, i “peggiori” peggiori. Anche se era un altro tipo di giudizio che veniva richiesto. “Una volta formate”, osservarono seccamente i ricercatori, “le impressioni sono straordinariamente perseveranti”.
Elizabeth Kolbert, Why Facts don’t Change Our Minds, “The New Yorker” 19 febbraio 2017, free online (leggibile col traduttore google)

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