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Verità e pregiudizio
Viviamo di “bias di conferma”, di propensione
alla conferma – di pregiudizi. Crediamo quello che sappiamo – che presumiamo di
sapere. Quando ci siamo formati un’opinione, di noi stessi e degli altri, ma anche
degli eventi, quella è la (nostra) verità, e non cambia. Non facilmente. Un “fatto”
di cui non si tiene abbastanza conto, nell’informazione e nell’analisi
politica. Che è diventato quasi fisico, si può aggiungere, materiale, con la “rete”,
per la natura incontrollabile della rete stessa, la libertà che ne fa il
pregio, e con google (i blogger, i social, la disinformazione).
Recensendo tre libri usciti otto anni fa (non
tradotti in Italia), di due coppie di psicologi, “The Enigma of Reason” di Hugo
Mercier e Dan Serber, “The Knowledge Illusion: Why We Never Think Alone”, di
Steven Sloman e Philip Fernbach, e “Denying to the Grave:Why We Ignore the
Facts That Will S av Us”, di Jack e Sara Gorman, l’autrice, premio Pulitzer per
la saggistica divulgativa, rafforza le loro conclusioni con gli studi analoghi
effettuati mezzo secolo prima all’università di Stanford. Con due ricerche, nel
1975 e “qualche anno dopo” (nel 1980, n.d.r.: Anderson, C.A., Lepper, M.R.,
& Ross, L., “The perseverance of social theories: The role of explanation in the persistence of
discredited information”).
Nei due esperimenti di Stanford agli studenti
veniva posto un dilemma con una doppia verità. Poi si stabiliva chi si era
approssimato a quella giusta. Poi si rivelava che tutto era una messinsecna,
che non c’era una vera graduatoria di chi aveva indovinato la verità e di chi
non c’era riuscito. E si invitavano gli studenti a rivedere le loro conclusioni
e a motivarle. La maggior parte confermavano la risposta precedente.
Agli
studenti “furono presentate coppie di biglietti di suicidio. In ogni coppia, un
biglietto era stato scritto da una persona a caso, l’altro da una persona che
si era successivamente tolta la vita. Agli studenti fu chiesto di distinguere i
biglietti autentici da quelli falsi”. Alcuni ci indovinarono, fno a 24 casi su
25. Altri “identificarono la nota autentica solo in dieci casi”. Si rivelò
allora che metà degli appunti erano “autentici - autentici – erano stati
ottenuti dall'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles”, ma che “i
punteggi erano fittizi”. Si è spiegato
che “che il vero scopo dell'esercitazione era valutare le loro risposte
al pensiero di avere ragione o torto”. E si chiese “agli
studenti di stimare quanti biglietti di suicidio avessero effettivamente
categorizzato correttamente e quanti, secondo loro, uno studente medio avrebbe
indovinato”. L'esito fu che i “migliori” si confermavano migliori, i “peggiori”
peggiori. Anche se era un altro tipo di giudizio che veniva richiesto. “Una
volta formate”, osservarono seccamente i ricercatori, “le impressioni sono
straordinariamente perseveranti”.
Elizabeth Kolbert, Why
Facts don’t Change Our Minds, “The New Yorker” 19 febbraio 2017, free
online (leggibile col traduttore google)
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