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lunedì 18 aprile 2011

Letture - 59

letterautore

Cani e cavalli – La bruttura della guerra Joseph Roth, nel “Reportage sentimentale”, racconto del 1927 (ora nella raccolta “Il secondo amore”), rappresenta nei cavalli moribondi al lato delle strade. Sarà poi tema malapartiano, specie in “Kaputt”. C’è una fonte comune a entrambi?
Il “Reportage” di J. Roth è attorno a un cane abbandonato, un bastardino. Anche in Malaparte il cane è la sua umanità.

Civile – La poesia civile si dice ardua. E lo è, essendo a soggetto e a progetto. Ma deve allora la poesia essere spontanea, casuale? E dove mettere i poeti civili, da Dante a Pound? Ma già Omero…

Comunisti – L’ultima invettiva contro “i comunisti” risale al 1952, al numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, nel quale Croce, con la nota “De Sanctis-Gramsci” poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagli con inconsulta vivacità “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”.
Poi Croce morì, e quindi non fece in tempo a vedersi aggiunto alla diade con un’altra lineetta.

Heidegger – Armando Torno presenta una polemica conferenza dell’estate del 1933, intitolata “A proposito del 30 gennaio 1933” (Hitler alla cancelleria), contro Erwin Guido Kolbenheyer, come un ripensamento da òparte di Heidegger dell’appena adottato nazismo. Kolbenheyer, un “filosofo popolare” che aveva preceduto Heidegger nello stesso ciclo di conferenza, si era appellato al discorso di Hitler (“finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione”) per proporre una concezione gradualistica dell’iniziativa politica. Heidegger ne gabella la modesta proposta per evoluzionismo, e la boccia, severo, sarcastico. Ma nel nome della rivoluzione, cioè del nazismo tutto e subito. Se c’erano ancora dubbi questo testo, pubblicato tardi, nel 2001, a cura di Hartmut Tietjen e ora tradotto da Carlo Götz per Christian Marinotti Edizioni, spiega invece con nettezza il nazismo di Heidegger. Al punto 1 della reprimenda, dove Heidegger non tanto critica il darwinismo quanto “la concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel s secolo XIX”, e “determina genituralmente” l’evoluzionismo. E soprattutto nell’orrendo, molto heideggeriano, punto 6: “Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheuer è incapce di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca” – la storia si è fermata.
Dov’è l’equivoco? Che si semplifica il nazismo, negli aspetti repellenti. Mentre aveva una filosofia, e anche un attraente. E lo si isola dalla “rivoluzione conservatrice”, osì pervasiva negli anni di Weimar, di cui è peraltro il fatto più significativo, storco (militare, resistenziale, politico) e ideologico. E a sua volta s’innesta nell’“unicità” tedesca, di cui fu portatore sano, ma non dei minori, Thomas Mann, quello del “fratello Hitler”, che non finì automaticamente con la sconfitta nel novembre del 1918. Tra la Grecia classica e pre-classica, l’“arianesimo”, e il sempre più remoto e freddo iperboreismo, magari in aspetto del solare Apollo. Col rifiuto di molte cose, ma con più costanza del liberalismo, dell’Occidente inteso come costituzionalismo liberale.

Meraviglioso – Per il meraviglioso mezza Europa ha sempre fatto riferimento all’Italia. L’Inghilterra da Chaucer a Shakespeare, e alla Radcliffe, a Walter Scott, a Stevenson, i tedeschi da E.T.A.Hoffmann a Th. Mann, i russi, i francesi, i polacchi. Soggetti e personaggi, trame oscure o incantatrici, santoni, fantasmi, con un tocco d’italiano sono sembrati a lungo più verosimili. È per questo che Casanova, Cagliostro, e i loro precursori ed epigoni furono creduti e temuti. Ma il genere non ha arricchito la letteratura italiana, esaurito l’effetto Ariosto, Tasso (di cui il traduttore inglese diceva: “poeta efficace, la cui mente\ credeva fermamente\ nei magici prodigi che cantava”).
La cultura italiana è stata la più classica e la più avventurosa. Eruditi e classici sono stati nobili e chierici nei tre secoli di Umanesimo, avventurosi sono stati nobili, poeti, novellieri e popolani nello stesso periodo. Ancora al tempo de viaggio di Montaigne, 1580, il popolino analfabeta conosceva a memoria l’Ariosto, le chanson de geste e le novelle. Poi questo filone ha taciuto, mentre il primo s’ingolfava nella retorica. È che l’avventuroso è passato senza residui nella vita quotidiana degli italiani – nel subconscio.

È un genere incontinente. In tutte le sue forme, avventura, esoterismo, science-fiction, fiaba, cavalleria, più che racconto c’è verbosità, cioè dismisura. Tutti gli altri generi possono essere a volte leggibili: giallo, romantico, nero, humour riescono talvolta e trovare la misura, il meraviglioso no. Non è liberazione ma sfogo: l’iterazione, la prolissità, il compiacimento esprimono afasie interne.
Che il meraviglioso non sia una camicia di forza? O un pantano in forma illusoria di giardino? Per chi ha problemi di equilibrio.

Savinio – Lo pseudonimo era già di Albert Savine, traduttore e scrittore di prose leggere. È il nome di Cyrano de Bergerac: Saviniano Cyrano de Bergerac – forse più ispiratore.

Stendhal– La passione in realtà è francese. Lo è in letteratura, dalle “Lettere portoghesi” in poi (prima cristallizzazione capolavoro “La principessa di Clèves”). Forse già da Racine se non si camuffasse – come poi farà Mozart – da funambolo rococò. Lo è nella vita - nella conversazione scacciapensieri, nel giornalismo femminile o la presse du coeur, nei film della Nouvelle Vague e dopo: l’amore vissuto intensamente, per un’ora, un giorno, una vita (M.Duras), furiosamente, ripensato, rivissuto, sofferto, trinciato, tritato. In Italia Stendhal può averlo trasfigurato, non trovato. L’italiano-a è irridente e calcolatore. Furbo. Senza scopo, e per questo non greve, ma così è: è giocoliere. Non c’è passione, non c’è nemmeno amore per questo nella letteratura italiana, come nella vita. Nella vita, e nella letteratura, c’è la gelosia, spesso assassina, ma è una violenza, che nasce dal possesso – il possesso vero è una passione, ma dell’avarizia.
Stendhal ha vissuto la passione in Italia perché in Italia ha vissuto, bene o male, la sua vita, da uomo cioè individualizzato e rispettato e non da giovinastro che si sfoga con le donne facili, e per il suo snobismo, che nella grande provincia Italia gli consentiva di proiettarsi più su delle sue modeste funzioni. Rispettato come straniero e (ex) conquistatore. A suo agio anche perché a cavaliere fra due lingue e due mondi, quindi perfettamente padrone.
La passione parla francese: convinta, un po’ guascona, e eccessiva. L’Italiano è lingua invece circospetta, precisa, posata. Quando vuole eccedere, trasgredire, deve farsi giocosa – di una credibilità (impegno) cioè diminuita.

Tocqueville – Dove germina la profondità (durata) del suo pensiero in rebus, in superficie? Nella scrittura. Lineare, con qualche complicazione da fretta comune ai reporter. Fondamentali sono naturalmente la preparazione culturale, l’approccio liberale, l’assenza di preconcetti (la curiosità). Ma la chiave è proprio la scrittura, che materializza il paradosso saviniano del superficiale\profondo – in fisica\matematica la semplicità dell’enunciato e dell’elaborato, che dà smalto all’analisi.

letterautore@antiit.eu

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