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Duse senza Duse
Abbiamo
avuto “Maria”, sugli ultimi momenti, non onorevoli, di Maria Callas, abbiamo “Duse”
sugli ultimi anni, impervi, di Eleonora Duse. C’è un genere, di donne
eccezionali, al tramonto? Per una sorta di ginecofobia gay? Perché è l’unica ragione
che si trova a questa ricostruzione. Che a differenza di “Maria”, quasi
rispettosa, è anche insistita e lunga. Mancando peraltro lo sviluppo più
romanzesco dell’egotismo capriccioso della grande attrice: la monacazione della
figlia e dei nipoti, i figli della figlia, abbandonata e ripresa a capriccio.
Marcello
ha il vezzo, già sperimentato nel “Martin Eden” che era tutto l’attore che lo
impersonava (Marinelli), di ruotare le storie attorno a un personaggio. Ma Valeria
Bruni Tedeschi, che pure regge il racconto, per due ore e mezza, non è Duse, è
se stessa. E non nella forma migliore – ha una sola espressione, sia che rida
sia che imprechi. E poi Duse non è un personaggio, è una persona storica, lo spettatore,
sia pure confusamente, ne ha cognizione: era una, capricciosa e tutto, ma che sapeva
recitare. Che era un personaggio perché catturava lo spettatore. In tutta Europa
e nelle Americhe, pur recitando unicamente in Italiano. Una sorta di prodigio
se, famosamente, Cechov ne scriveva alla sorella in questi termini: “Ho proprio
ora visto l’attrice italiana Duse in Cleopatra di Shakespeare (“Antonio e
Cleopatra”, n.d.r.). Non conosco l’italiano, ma lei ha recitato così bene che
mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”.
È una
grande produzione. E quindi molto ricca di ambientazioni, soprattutto di interni.
Che, questi sì, fanno storia. Molti i personaggi di contorno, e quindi di curiosità
– anche se alla storia non aggiungono e non tolgono: D’Annunzio naturalmente (con
molto Giordano Bruno Guerri in qualità di “attendente di d’Annunzio”), e i grandi
del teatro, Sarah Bernhardt, Memo Benassi, Ermete Zacconi, c’è perfino Matilde
Serao. E perché non Boito, l’amante di letto (e riduttore di Shakespeare, l’“Antonio
e Cleopatra” con cui Duse aveva incantato Cechov) – nel 1918, quando moriva,
rientrava a pieno nella vicenda? O la sanguigna Sibilla Aleramo, l’eterea Isadora
Duncan?
Ma nel
vortice di una dissoluzione che non è dissoluta - non sfonda, non appassiona. Con qualche svagatezza. Si mette in scena Sarah Bernhardt, la Berma, o Haras, della epopea ottocentesca di Proust, per rimproverare nel dopoguerra a Eleonora Duse un teatro vecchio, non al passo coi tempi, ma Bernhardt aveva una quindicina di anni più di Duse, era amputata di una gamba, e malata di uremia - di cui moriva anche lei presto, ai primi del 1923.
Il
solo dei tanti “tagli” della vicenda tentati in sceneggiatura che si ricorderà
è l’uso dei reperti visivi d’epoca della Grande Guerra, filmini e fotografie. Del
lungo funerale ferroviario del Milite Ignoto da Aquileia a Roma dopo la guerra, e di foto dal fronte durante. Queste (poche) immagini non c’entrano con
“Duse”, sono intervallate a caso, ma fanno da sole un’altra narrazione della Grande
Guerra patriottica. La posa di una compagnia di fanti, un centinaio di soldati,
con la baionetta tra i denti fa ancora rizzare la pelle.
Pietro
Marcello, Duse
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