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lunedì 30 maggio 2022

Letture - 492

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Sant’Antonio – In Congo Gide si sente a un certo punto come sant’Antonio che “riflette sulla stupidità del catoblepa” – di qualcuno dice: “La sua stupidità mi attira”. Sant’Antonio di Padova? Più probabile sant’Antonio abate, detto anche (wikipedia) “sant’Antonio il Grande, sant’Antonio d'Egitto, sant’Antonio del Fuoco, sant’Antonio del Deserto e sant’Antonio l'Anacoreta”, un abate ed eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. Il catoblepa è un animale leggendario, “dal collo lungo esile, la cui testa si trascina per terra”, per il Petit Robert – “una specie di bufalo nero con una testa di porco” per wikipedia.
 
Croce – “Il più formidabile lettore e intenditore di testi in Italia”, lo dice Carlo Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”, “che sia apparso dal Settecento a oggi”.
 
Dante – Non è umanista, nella sintesi fulminea Dionisotti, ib.: Petrarca lo è, alla corte avignonese che Dante detesta.
Però Boccaccio, che idolatra Dante, ha il gusto della cultura classica – l’ha mediato a Napoli, ambiente saturo di cultura francese, che allora, prima di Petrarca, mediava i classici anche per gli italiani.
 
Nel toscano-italiano “codificato” da Bembo, “perfino Dante appare sboccato e popolare” – sempre Dionisotti, cit., 115. Che ha anche la “cantilena” della “Commedia”, p. 236

 
Umberto Eco - Deve molto a Roland Barthes – senza saperlo? Si direbbe anzi tutto, meno i romanzi. Al Barthes delle “Mitologie”, suo primo e fondamentale libro, 1957: i diari minimi, le bustine di Minerva, Mike Bongiorno, le tesi di laurea – leggere la quotidianeità, come tutti, sui giornali, le riviste, i cinegiornali poi le tv, le chiacchiere. E agli “Elementi di semiologia” i trattati. Nel taglio, e nello spirito. Eco non lo dice, ma lo spiega, in una presentazione di Barthes nella rubrica Rai “Settimo giorno” del 1975, recuperata ora su youtube, “Umberto Eco su Roland Barthes” (purtroppo tronca). Eco spiega che anche Barthes voleva essere uno scrittore, benché professore esperto di semiologia. Scrittore quando scriveva delle “mitologie” contemporanee, il Tour de France, il divismo, Dior, etc., o di Ignazio di Loyola, di Sade, o del piacere della scrittura. E che l’etichetta di semiologo, che lui temeva perché sa di tavole rotonde, dibattiti, conferenze, i noia e fatica, gli si è attaccata “per caso”: Eco e i suoi amici di “Marcatré” avevano deciso di tradurre un suo scritto di semiologia, degli appunti di lezione. La forma in cui era scritto piacque molto a Vittorini, che volle farne un volumetto della sua collana Nuovo Politecnico Einaudi. Il successo di questi “Elementi di semiologia” si riverberò in Francia, con la ripresa di quella modesta traccia universitaria in “trattato”, e subito recepita in Inghilterra e nel mondo anglosassone. Questo lo ha costretto a tralasciare la sua voglia di scrittura d’invenzione. Diventato semiologo eminente, non ha più potuto, come invece Eco ha fatto, scrivere i romanzi?
In effetti Barthes arriva tardi agli studi accademici, a 35 anni. Dopo una lunga giovinezza passata tra occupazioni avventizie, supplenze soprattutto, e collaborazioni a periodici di varia lettura. E molto teatro, come promotore, organizzatore e anche attore. La prima traduzione di Barthes in realtà è stata del 1960, dell’editore Lerici, “Il grado zero della scrittura”, la scorribanda sula “scrittura” che si può in effetti anche leggere come una preparazione al Romanzo.
 
Genere – In letteratura fa un bel giardino zoologico, nota Barthes nelle “Mitologie” – “Romanzi e bambini” – a proposito di “Elle”, il settimanale femminile (“un vero tesoro mitologico”): “A credere a ‘Elle’, che una volta ha riunito in una sola fotografia settata romanziere, la donna di lettere costituisce una specie zoologica notevole: partorisce come capita romanzi e bambini”.
 
Gide al Congo – “Gide leggeva un po’ di Bossuet discendendo il Congo. Questa postura riassume abbastanza bene l’ideale dei nostri scrittori in vacanza, fotografati da ‘Le Figaro’”. Roland Barthes nelle “Mitologie”, dove rappresenta la realtà-mondo con gli articoli di giornale, al § “Lo scrittore in vacanza”, trova che Gide, in viaggio avventuroso e faticoso come poteva esserlo un secolo fa tra Congo e Africa Equatoriale, facendosi fotografare, in posa, sul battello mentre legge Bossuet, esemplifica l’immagine borghese (“Le Figaro”) dello scrittore in vacanza.
Non sapendo che era un viaggio di otto mesi, in compagnia del giovane e bello Marc Allegret – non sarà la malignità di Barthes per invidia?
 
Italia – Prima della Grande Guerra si discuteva fra gli storici se e fino a quale segno la storia d’Italia si potesse dire unitaria. Croce era decisamente per il no.
 
Italiano – Se il toscano fosse già diventato lingua nazionale con la “Commedia” e il “Decameron”, non ci sarebbe stato l’Umanesimo. Lo diventerà dopo, e da fuori Firenze: con la “codificazione” introdotta da Bembo – Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”, 115.
Tardi, insiste Dionisotti, il toscano diventa la lingua, malgrado una “colonizzazione toscana attivissima nella vita economica e sociale, e la subitanea, vastissima, diffusione della ‘Commedia’”
 
Kipling – Un Houdini, un trasformista. Quando scriveva agli amici, “tendeva a modificare la calligrafia, imitando quella della persona a cui si rivolgeva” – Ottavio Fatica, nell’introduzione alla raccolta di racconti “I figli dello Zodiaco”. Imitava anche le voci e gli accenti, inquietando gli amici per quel suo “inquietante dono camaleontico”. Lo stesso polimorfismo dei racconti. Suscitando per questo l’interesse del primissimo critico, Henry James: “Non c’è nulla, in questo universo vasto e terribile, che gli non possa incarnare”. E in Italia di Renato Serra: “Si pone d’un colpo solo nei panni del suo personaggio: poi comincia a scrivere tutte le cose intorno da quel preciso punto di vista, di donna, di negro, di assassino, d’innamorato, di asceta, di elefante, di pantera, di foca, di locomotiva, di bastimento”. E del giovanissimo Cecchi.
 
Petrarca – “Petrarca non è un laico”, è la cosa che più colpisce Dionisotti nella “Geografia e storia della letteratura”, 61: il fondatore dell’Umanesimo italiano ed europeo, il maestro della nuova poesia amorosa, è un chierico cappellano e canonico, e vive dei proventi dei benefici ecclesiastici, con amanti e figli naturali.
 
Proust – Non sarà stato antisemita come lo vuole (voleva?) Piperno. Ma sicuramente non “rivendica”, come dice Daria Galateria alla fine della sua introduzione ai “75 fogli” ritrovati, “le certezze del suo «sangue»”. Galateria lo dice trovando curiosa – “una figura comica” - nel racconto ammiratissimo del secondo viaggio a Venezia, nell’ottobre del 1900, da solo, il passaggio sul Cristo benedicente di San Marco: “Nostro Signore con l’aria effeminata, orientale e bizzarra, con il suo gesto trasformato in una posa da grasso siriota equivoco”. Ma questi connotati li riferisce a “esseri di razza diversa”.
C’è anche di peggio (di “più diverso”) al primo sguardo entrando nella basilica, quando vede “il Dio che sappiamo essere il nostro Dio, ma che sembra quasi un giullare pascià d’Oriente”.
Ma non c’è scrittore nel Novecento che abbia pratica corrente, usuale, normale, alla chiesa, e ne usi i riferimenti (pratiche, riti, formule) nella scrittura. Il bacio materno della buonanotte Proust dice “ostia narcotica” nella stessa introduzione di Galateria. 
 
Russia – Non ne hanno buona opinione gli intellettuali russi del primo Ottocento, sull’onda lunga della rivoluzione francese, e del liberalismo – le raccolte di aforismi ne sono piene, sulla traccia di Winston Churchill quando finì il flirt con Stalin: “La Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”.
“Qualcuno saprebbe capire la Russia?”, è problema posto dal poeta e traduttore, dal tedesco, dal francese, Afanasij Fet a metà Ottocento, mezzo tede sc per parte di madre, educato in Estonia. Lo stesso che aveva già esposto, più argomentato, Fëdor Ivanovič Tjutčev, poeta di notevole rispetto e diplomatico: “La Russia non si può capire con la mente,\ né la si misura col metro comune:\ la Russia è fatta a modo proprio,\ in essa si può soltanto credere”. Peggio di tutti era stato il filosofo  Piotr Čåadaev, “Lettere filosofiche”: “Abbiamo qualcosa, nel nostro sangue, che respinge ogni vero progresso”. Ma era un pensatore legato alla reazione cattolica in Francia, Bonald e Joseph De Maistre.
“Siamo una lacuna nell’ordine intellettuale”, diceva anche Čåadaev. E: “Solitari nel mondo, al mondo non abbiamo apportato nulla, insegnato nulla, non abbiamo versato una sola idea nella massa delle idee umane”. Questo non sarà più vero col secondo Ottocento e il primo Novecento, dal terrorismo anarcoide al comunismo. Ma soprattutto in letteratura e arti – già Fet, Tjutcev e Čåadaev avevano Griboedov, Puškin, Lermontov: poesia, narrazioni musica, balletto, teatro, cinema, per un secolo saranno stati soprattutto russi.  
 
Dotstoevskij, che aveva viaggiato, aveva il punto di vista giusto: “Agli occhi dell’Europa, la Russia è come uno degli enigmi della Sfinge. Per l’Occidente è più facile scoprire il moto perpetuo o l’elisir di lunga vita che sviscerare l’essenza della russità, lo spirito russo, il suo carattere e la sua natura”.
 
Il poema di Puškin, “Ruslan e Ljudmila”, di amori avventurosi, è ambientato tra Kiev e Dnipro. Su Kiev e i “kieviani” (nella traduzione di Landolfi) alla fine dell’avventura “scenderà la pace”. “Sommettiti alla forza russa!” è l’ordine di Ruslan, cui un genio malefico ha sottratto l’amata Ljudmila. Ma eroico, saggio, modesto, in tutte le circostanze del poema, è “l’onesto Finno” (sempre © Landolfi).   


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