astolfo
Karl Ditters von
Dittersdorf – Il
musicista “vittima” di Mozart, forse più di Salieri.
Autore di 110
sinfonie - “cui se ne devono aggiungere
altre 90 secondo il catalogo pubblicato da Helen Geyer” (Alfredo Di Pietro). Tra
esse dodici ispirate alle “Metamorfosi” di Ovidio, delle quali solo sei
sopravvivono, composte nel 1786. Nonché di 32 opere e Singspiel, di
cui si scriveva anche i libretti. Oggi poco ricordato anche in area germanica,
fu musicista fertile e ammirato a Vienna, che era la sua città. Ma presto era
diventata la Vienna di Mozart. Col quale si produsse nell’evento che meglio lo
ricorda: come secondo violino in quartetto con Franz Joseph Haydn primo
violino), Mozart (viola) e Vaňhal (violoncello), il 12 febbraio del 1785, per
tre dei sei quartetti di Mozart dedicati a Haydn. Una formazione messa assieme
l’anno prima, sempre a Vienna, sempre in onore di F.J-Haydn, dal compositore
inglese Stephen Storace.
Sempre nel 1784,
dopo Storace anche Mozart aveva dato una festa per Haydn, per celebrarne
l’ingresso nella massoneria. Con un quartetto e un programma di cui però con si
conosce la composizione.
Anche in Italia
von Dittersrdorf fu presto oscurato da Mozart tredicenne, al suo primo viaggio,
1769, già ammiratissimo. Avviato a Vienna al contrappunto e composizione da
Giuseppe Bonno (il compositore figlio di un italiano al servizio della corte imperiale
– battezzato col padrinaggio dell’imperatore Giuseppe I), nel 1763, a
venticinque anni, era stato in tournée in Italia, virtuoso del violino, accompagnato
al piano da Christoph Willibald Gluck. Sei anni dopo, nel 1769, Mozart al suo primo
viaggio in Italia, chaperonato dal padre, pianista inventivo oltre che
virtuoso, ne cacellò il ricordo.
Si consolerà con
le decorazioni. Nel 1773 ottenne dall’imperatrice Maria Teresa un titolo nobiliare,
da cui il “von”, e dal papa nello stesso anno l’Ordine dello Speron d’Oro.
Finì male, per avere
litigato con gli ultimi datori di lavoro. Nel 1769 si era impiegato presso il
principe-vescovo di Breslavia (oggi Wroclaw, in Polonia), che lo destinò al castello
di Jánsky Vrch a Javornik. Nel 1794, dopo venticinque anni di servizio, litigò
col direttore del castello e ne fu espulso. Due anni dopo fu accolto da un
barone con Stillfried in Boemia. Ma senza grandi favori. Morirà in miseria, di
gotta, nel 1799.
Due anni dopo la
morte fu pubblicata a Lipsia, allora la capitale dell’editoria europea -l’autobiografia, “Lebenbeschreibung”, che
avrebbe dettato al figlio - e che ora ne alimenta un piccolo revival,
cronachistico se non musicale, con la traduzione in italiano, dopo quella francese
e quella inglese.
Una sua opera comica,
“Doktor und Apotheker”, dottore e farmacista, 1786, avrebbe “surclassato Mozart
e «Le nozze di Figaro»”, con 72 riprese a Venna nei dodici anni successivi,
fino alla sua morte, contro le 38 di del capolavoro di Mozart. Ma è vero che
succedevano all’epoca cose strane, anche divertenti. Dittersdorf ha il ricordo
del castrato Nicolini, il più famoso dell’epoca (in napoletano Nicolò Francesco
Leonardo Grimaldi, noto come Cavalier Nicolino, Nicolino, Nicolini), molto
attivo a Londra, che venne scambiato da un mendicante cieco per una battona di
strada. O il pappagallo di Vittoria Tesi, la grande contralto del Settecento, “la
Fiorentina” o “la Moretta” (di padre africano), talmente bene addestrato che la
Inquisizione se ne insospettì e lo esaminò a fondo, alla ricerca dell’incantesimo.
Che se non è vero è ben trovato: c’era già la rivoluzione in mezza Europa, ma ancora
si pensava settecentesco, pettegolo e ilare.
Loris Malaguzzi – Il pedagogista
creatore del “Reggio Emilia Approach” negli anni 1960 (una metodologia basata
sulla pratica, teorizzata successivamente, ma più col metodo seminariale che ex
cathedra)), la metodologia didattica prevalente nei giardini d’infanzia della
città.
La metodologia di
Malaguzzi si basa su forme in parte già adottate, altre da adottare: il lavoro
collegiale e relazionale (coordinamento) di tutto il personale, la presenza
quotidiana di più educatori e insegnanti con i bambini (non più la maestra-vicemamma),
e poi un atelier per le più diverse pratiche, dal ricamo alla ceramica,
compresa la cucina, il coinvolgimento dei genitori. E con un approccio ambientale
radicato. Per una scuola “luogo di ricerca, apprendimento, ricognizione e
riflessione dove stiano bene bambini, insegnanti e famiglie”. Con una
documentazione minuta di questi primi anni dello sviluppo, disegni, collages, allestimenti,
foto, video - che in effetti è per ogni bambino, a distanza di tempo, sempre
sorprendente. Sulla base di un principio pedagogico semplice: 1) l’apprendimento
è migliore quando è attivo, non passivo, 2) l’apprendimento deve essere
radicato nel mondo naturale, 3) l’ambiente deve essere parte integrante del
curriculum.
Il brigante Spadolino
–
“Il bosco di Baccano (lungo la via Cassia, “fra il tredicesimo e il ventesimo
miglio da Roma”, n.d.r. – è da questo toponimo che deriva la parola di senso comune)
fu rifugio di molti ricercati. La fine la racconta Antonio Baldini “L’Italia di
Bonincontro”, 87: “Ultimo «re della foresta» di Baccano fu il famoso brigante S
padolino, catturato con una falsa promessa di condono dai soldati francesi e
fucilato nel 1807. Il processo fu fatto dalla Corte militare francese, che a
quei giorni risiedeva nella Cancelleria di Roma, e durò otto giorni filati con
l’interrogatorio di quattrocento testimoni. S padolino e otto de’ suoi fidi
ebbero la condanna a morte. La bella amica del capobanda s’ebbe quattro anni di
carcere. Durante il processo Spadolino riconobbe in un gendarme di fianco alla
gabbia un suo ex-saltamacchia. Scoppiò a ridere. Non avrei mai creduto, disse, che
il governo francese reclutasse a questo modo la sua gendarmeria! Andò a morte
facendo per la strada l’occhiolino alle ragazze e giunto sul luogo dell’esecuzione
disse agli amici: «Via, è più che giusto. L’abbiamo bene tormentato questo povero
popolo!». Cinque o sei anni dopo la selva fu tutta sradicata”.
Sticotti – “Gli Sticotti” sono una famiglia, più generazioni, di attori italiani,
detti “comici”, famosi nel Settecento per rappresentare la commedia dell’arte
italiana in giro per l’Europa - di più a Londra e a Parigi (Claudio Meldolesi
ha dedicato loro una monografia) E per teorizzare a metà Settecento, come aveva
già fatto un altro illustre teatrante italiano una generazione prima, Luigi
Riccoboni, l’arte del teatro. Della recitazione più che della messinscena.
Luigi Riccoboni, “Dell’arte
rappresentativa”, aveva impostato nel 1728 il dibattito: contro lo stile
francese, ricercato, propone la
sincerità interiore, un’identificazione dell’attore nel personaggio. La
proposta è ripresa nel 1749 a Parigi da Pierre Rémond de Sainte-Albine, che dà
alle stampe un saggio intitolato
“L’attore”: l’attore dev’essere tutto sensibilità, sentimento e “fuoco”.
Ideale sarebbe anche l’adesione fisica dell’attore al personaggio, la voce,
l’emotività – un pubblico dotato di
“gusto e discernimento” non può accontentarsi
di una mimesi meccanica: l’attore dev’essere un “creatore” e non un “riproduttore”,
per quanto fedele al testo.
L’anno dopo, nel
1750, Saint-Albin viene tradotto, in libero adattamento, a Londra, “L’attore o
un trattato sull’arte di recitare”. Senza indicazione dell’autore, ma opera di Aaron Hill. E riedito cinque anni dopo, sempre
in forma anonima, ma modificata sostanzialmente. A Londra il tema era giù materia
di discussione dal 1744, dalla pubblicazione del saggio di Garrick “Breve
trattato sulla recitazione”. Anche
Garrick era dell’idea che l’attore non debba imitare il vissuto, i modi di essere,
ma debba “assimilare” il personaggio, “nutrirle”, col “calore geniale” della
propria “idea”.
Nel dibattito si
era intanto infilato Riccoboni jr., Antoine-François Valentin, pubblicando nel
1750 a Parigi una breve “Arte teatrale” dall’assunto molto moderno: come il
padre, vuole in teatro naturalezza, ma di più ritiene importanti l’elaborazione
e la padronanza di proprie tecniche espressive: l’attore è tanto più “naturale”
quanto più è consapevole e utilizza i propri
mezzi espressivi.
A questo punto,
1769, Antonio Sticotti traduce in francese un libro attribuito a Aaron Hill, “Garrick
ou les acteurs anglais – che non era di fatto che un adattamento in inglese dell’opera
di Sainte-Albin. Che Diderot è incaricato da Grimm di recensire per la sua
“Correspondance littéraire”. Diderot, che aveva nutrito ambizioni di autore
teatrale, e aveva visto Garrick in scena a Parigi qualche anno prima, ci prende
gusto, e la recensione elabora, nel 1770, nel subito famoso “Paradosso
sull’attore”. In forma di dialogo, dialogando con un “secondo interlocutore”,
che è poi Antonio Sticotti (Sainte-Albin) – Sticotti era dell’idea di “Aaron
Hill”-Sainte-Albin. Un testo seminale per molti aspetti, che faceva piazza
pulita del “teatro classico” in Francia, il cui nucleo è riassunto dal Primo
Interlocutore (Diderot) in questi termini: “Il punto importante, sul quale
abbiamo opinioni del tutto opposte il vostro autore (Sticotti, adattatore di
Sainte-Albine via “Aaron Hill”), e io sono le qualità prime di un grande attore.
Io pretendo da lui molto giudizio; voglio in quest’uomo uno spettatore freddo e
tranquillo; ne esigo, di conseguenza, capacità di penetrazione e nessuna
sensibilità; l’arte di imitare tutto, che è lo stesso, una eguale attitudine a
ogni specie di caratteri e di ruoli”.
asolfo@antiit.eu
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