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lunedì 1 settembre 2025

Se la guerra è colpa degli ebrei

Il primo dei libelli antisemiti, 1937. Subito tradotto in italiano, ma con ampi tagli dell’editore Corbaccio, e anche della censura, in commercio fino al 1945. Proibito in Francia nel dopoguerra e mai più riedito - nel 2017 Gallimard ne annunciò la ripubblicazione, su autorizzazione della vedova di Céline, Lucette Almanzor, ma la polemica che seguì sconsigliò la stampa. In Italia era stato ritradotto - dopo averie edizioni pirata tra il 1965 e il 1976 - nel 1981 da Pontiggia per Guanda, integrale. Ma ritirato dalle librerie dopo soli tre mesi, per un’azione penale intentata dal legale della vedova di Céline.
La guerra, che nel 1937 sembrava fuori dall’orizzonte, era invece già un incubo per Céline. Che se la prende (anche) con gli ebrei, non sapendo con chi prendersela. La guerra era il suo incubo, avendola visuta in trincea nel 1914, con una ferita anche grave. La guerra è sporcizia, sangue, sofferenza, morte. Il tutto in una cornice narrativa, di sezioni dissociate, intervallate dai soggetti di tre balletti, “La nascita di una fata”, “Paul canaglia. Virginie coraggiosa” e “Van Bagaden”. Il demone del mercato editoriale, perduto dopo gli anni folgoranti del “Viaggio”, non è estraneo alla ricerca di effettacci, per un succés de scandale. Emmanuel Mounier, che recensì il libello subito nella sua rivista “Esprit”, sottolineò puntigliosamente le fonti di una trentina di passi: due opuscoli “dello stesso genere di quelli che si vendono all’uscita dei metrò, con le liste degli ultimi numeri del Lotto e le illustrazioni pornografiche”, e “Israele, il suo passato, il suo avvenire” di H. de Vries Heekelingen, antisemita blando del filone “gli ebrei in Israele”.
Una nota di Giancarlo Pontiggia, che da traduttore ha dotato Céline di una perfetta reincarnazione in italiano, una sorta di miracolo, vuole lo scrittore pericoloso, se lo è, non per l’astio anticomunista e antisemita dei pamphlet ma “per il voluto attacco che muove alla cultura umanistica”. Che ne farebbe la modernità, “anzi il punto di svolta verso la piena modernità novecentesca, che si esprime – com’è noto – nella rinuncia a un pensiero strutturato”. Un Céline anche molto Kristeva, “I poteri dell’orrore” – l’evisceramento da cui aborriva, filosofico, di solidissima genealogia: con Céline qui “danziamo, sotto quel cielo crollato (Nietzsche); come vorremmo danzare (Heidegger); ecco come davvero danziamo (Céline)…”.
Se non che Céline potrà essere tutto ma non anti-umanista. Céline finisce anti-umanista dichiarato per essere impreparato ad affrontare la realtà, che è sempre anti-umana: è un “buonuomo”, il medico dei poveri, uno incapace di una sola cattiva azione, anche minima, che la guerra ha sconvolto, e sconvolge dopo gli anni felici della “scrittura”. Perché lui l’ha vissuta dal di dentro. E perché la guerra si riapprossima inesorabile, ogni avvertimento o contrasto è inefficace e ridicolo.
Anti-umanista semmai per formazione, intrappolato nell’autodidattismo – fino al commaraggio da portiera, da signora mia, così pieno di verità sempre assolute.
Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, pp. 306 pp. vv.

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