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Se la guerra è colpa degli ebrei
Il
primo dei libelli antisemiti, 1937. Subito tradotto in italiano, ma con ampi
tagli dell’editore Corbaccio, e anche della censura, in commercio fino al 1945.
Proibito in Francia nel dopoguerra e mai più riedito - nel 2017 Gallimard ne
annunciò la ripubblicazione, su autorizzazione della vedova di Céline, Lucette
Almanzor, ma la polemica che seguì sconsigliò la stampa. In Italia era stato
ritradotto - dopo averie edizioni pirata tra il 1965 e il 1976 - nel 1981 da
Pontiggia per Guanda, integrale. Ma ritirato dalle librerie dopo soli tre mesi,
per un’azione penale intentata dal legale della vedova di Céline.
La
guerra, che nel 1937 sembrava fuori dall’orizzonte, era invece già un incubo
per Céline. Che se la prende (anche) con gli ebrei, non sapendo con chi
prendersela. La guerra era il suo incubo, avendola visuta in trincea nel 1914,
con una ferita anche grave. La
guerra è sporcizia, sangue, sofferenza, morte. Il tutto in una cornice
narrativa, di sezioni dissociate, intervallate dai soggetti di tre balletti, “La
nascita di una fata”, “Paul canaglia. Virginie coraggiosa” e “Van Bagaden”. Il
demone del mercato editoriale, perduto dopo gli anni folgoranti del “Viaggio”,
non è estraneo alla ricerca di effettacci, per un succés de scandale. Emmanuel Mounier, che recensì il libello subito
nella sua rivista “Esprit”, sottolineò
puntigliosamente le fonti di una trentina di passi: due opuscoli “dello stesso
genere di quelli che si vendono all’uscita dei metrò, con le liste degli ultimi
numeri del Lotto e le illustrazioni pornografiche”, e “Israele, il suo passato,
il suo avvenire” di H. de Vries Heekelingen, antisemita blando del filone “gli
ebrei in Israele”.
Una nota di Giancarlo Pontiggia, che da traduttore ha dotato
Céline di una perfetta reincarnazione in italiano, una sorta di miracolo, vuole
lo scrittore pericoloso, se lo è, non per l’astio anticomunista e antisemita
dei pamphlet ma “per il voluto attacco che muove alla
cultura umanistica”. Che ne farebbe la modernità, “anzi il punto di svolta
verso la piena modernità novecentesca, che si esprime – com’è noto – nella
rinuncia a un pensiero strutturato”. Un Céline anche molto Kristeva, “I poteri
dell’orrore” – l’evisceramento da cui aborriva, filosofico, di solidissima
genealogia: con Céline qui “danziamo, sotto quel cielo crollato (Nietzsche);
come vorremmo danzare (Heidegger); ecco come davvero danziamo (Céline)…”.
Se non che Céline potrà essere tutto ma non anti-umanista. Céline
finisce anti-umanista dichiarato per essere impreparato ad affrontare la
realtà, che è sempre anti-umana: è un “buonuomo”, il medico dei poveri, uno
incapace di una sola cattiva azione, anche minima, che la guerra ha sconvolto,
e sconvolge dopo gli anni felici della “scrittura”. Perché lui l’ha vissuta dal
di dentro. E perché la guerra si riapprossima inesorabile, ogni avvertimento o
contrasto è inefficace e ridicolo.
Anti-umanista semmai per formazione, intrappolato
nell’autodidattismo – fino al commaraggio da portiera, da signora mia, così
pieno di verità sempre assolute.
Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, pp. 306 pp. vv.
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