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Giallo – Alessandro
d’Avenia si spiega con un Dürrenmatt del lontano 1957, “La promessa. Requiem
per un romanzo giallo”, il successo del genere da un paio di decenni in Italia,
dopo un paio di secoli di disattenzione. Ma poi prosegue: “Il giallo è quel che
resta della nostra fame di verità: il detective, martire laico, la scoprirà, permette
che si faccia giustizia. Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo,
riportano la casualità alla causalità, e amiamo i detective perché, risolvendo
«un» caso, eliminano «il» caso”.
Se non che poi ha un dubbio: “Ma siamo sicuri di volere verità\giustizia
e non invece uno spettacolo morboso e irrispettoso della dignità dei
coinvolti?”. E non un passatempo, come lo spettacolo a quiz? Un’altra forma di
lettura veloce, dopo quelle di avventura, d’amore, di guerra – e impegnativa solo
brevemente?
Internazionalismo – Tra le
due “chiese”, come usava dire in ambiente laico al tempo del Pci a Roma, solo
quello “romano”, cioè cattolico, ha resistito e resiste, quello
“internazionalista” è sempre naufragato. È l’analisi di “Lotta Comunista”: “Il primato
di Roma ha dovuto subire le amputazioni dello scisma anglicano e della Riforma
protestante (e prima ancora dell’Ortodossia, n.d.r.), ma ha resistito con
arrangiamenti e compromessi alle forze centrifughe animate dall’emergere degli
Stati moderni: dal gallicanesimo della monarchia francese, alle
prerogative imperiali spagnole, al giuseppinismo degli Asburgo
d’Austria, all’americanismo degli Stati Uniti potenza emergente. Sono i
precedenti degli accordi odierni con la Cina…”.
La ragione della continuità? Il compromesso. “Il messaggio a Pechino non
poteva che essere: la Chiesa multipolare, è vero, aspira all’unità, ma
nel suo realismo sa anche farsi attraversare dal confliggere degli interessi di
potenza”.
Per “l’internazionalismo proletario”, invece, “solo l’unità di classe è
il suo principio vitale”. Evidentemente disatteso. O irrealizzabile? “Per tre volte
l’Internazionale comunista è stata sconfitta perché il comparto al cuore del suo
insediamento proletario è stato catturato dalla forza particolare della sua
borghesia. La Prima Internazionale vide la defezione del tradeunionismo inglese
impaurito dalla Comune di Parigi; la seconda l’abdicazione della
socialdemocrazia tedesca nel 1914; la Terza fu annientata nella sua piazzaforte
bolscevica dalla controrivoluzione staliniana, in cui il capitalismo di Stato
si combinò col nazionalismo grande-russo”.
Medea – “Traditrice e
tradita”, una borghese ante litteram, “guidata da un pensiero: il Grande
Amore”. Sulla traccia di Marina Cicogna, che della Callas era amica, Daria
Galateria (“Atlante degli artisti in affari”, 74), lo dice a proposito della
grande cantante, “scoperta” da Pasolini per il ruolo quando Onassis la abbandonava
per Jacqueline Kennedy: “Il 19 ottobre 1968… la Callas accettò il ruolo d Medea
per il film di Pasolini. Dopo anni di relazione con Onassis, quel giorno stesso
aveva saputo che l’indomani il magnate avrebbe sposato Jacqueline Bouvier Kennedy.
Prima la Callas aveva sempre rifiutato il cinema”.
Orfani – Erano tema
ricorrente di narrazioni e sono scomparsi – non da ora, bisogna dire. Ne dà
l’annuncio Francesca Mignemi nel suggestivo - ben più del settimanale di cui è
costola - “speciale” del 25 maggio, “La Lettura delle ragazze e dei ragazzi”. Ricordando
Malot, naturalmente, “Senza famiglia”, e Twain o Lindgren: Heidi, Oliver Twist,
Mowgli il figlio della giungla (ma a suo modo anche Rudyard Kipling, non vero orfano,
ma esiliato da parenti poco affettivi in Inghilterra), Pollyanna…. Con
“antenate e antenati illustri: Cenerentola, Raperonzolo, Biancaneve, Hänsel e
Gretel e Pollicino”. Che “non hanno padri né madri” e hanno “storie che non consolano,
sono scintille di pura immaginazione”. Di che far valere nel dibattito ora sulla
famiglia? “Raccontano la perdita e la possibilità. Indicano sentieri alternativi
con famiglie scelte, amicizie profonde, giardini segreti, fiumi che scorrono
liberi”. Per finire con “Pippi, che vive senza genitori in una casa sorprendente,
cavalca cavalli e sfida ogni autorità con il sorriso”, una “a cui nessuno … dice
cosa fare: è l’anarchia fatta bambina, è l’infanzia che si autodetermina”.
Ma, certo, col cervello di bambini fatti adulti, e bravi scrittori.
Sostituiti ora da adozioni e affidi? Non è la stessa cosa. Il tema è qui l’abbandono,
l’orfano era un tema tragico (il destino), sociale, storico, palingenetico. E
divertente, un mondo senza genitori.
Opinione – Fa la storia:
è l’opinione di Vincenzo Padula, prete, poeta, drammaturgo cosentino del
secondo Ottocento, che per un paio d’anni fu anche giornalista, con una propria
testata, “Il Bruzio”. Dove al lancio dichiara l’opinione “protagonista
dominante della storia del secolo XIX” (Giuseppe Galasso, nello studio sul
Padula poi ripreso in “Calabria, paese e gente difficile”): “Un protagonista,
per lui, da sempre, fin dall’alba dei tempi, e che sempre è all’origine degli
sviluppi storici in atto”. Specie nel secolo XVIII, per Padula “il secolo delle successioni
contrastate, delle riforme amministrative, dell’emancipazione della borghesia,
della libertà nel campo della politica, della religione e del pensiero”. E il
secolo XIX, “(il secolo) non delle successioni dinastiche, ma delle nazionalità,
non dell’emancipazione della borghesia, ma di quella del proletariato, non della
libertà nel campo della politica, ma dell’industria, mirando a cercare non
l’eguaglianza tra i cittadini del medesimo Stato, ma l’eguaglianza tra i
popoli”.
Nella sintesi di Galasso: “L’opinione evolve nel tempo, e muta e rovescia le idee, le
mentalità, le sensibilità, gli atteggiamenti del corpo sociale, rendendo fausto
e benvenuto quel che nel precedente periodo storico era deprecato e avversato”,
E, nel secolo XIX, “l’opinione è il giornale”.
Papa – Perché non
eletto dal popolo romano – in quanto vescovo di Roma? È la tesi di Vincenzo
Padula, il sacerdote e scrittore cosentino, che sul suo giornale “Il Bruzio” si
faceva porre il quesito il 3 aprile 1864 da un anonimo: “Risposta ad una
lettera pseudonima. Il popolo romano può nominare il papa?”, e rispondeva che
sì: il laicato romano può eleggere il suo vescovo, e la cosa “non è esclusa”
neppure dal Concilio di Trento.
Teatro - A fine
Cinquecento-primo Seicento, gli anni di Shakespeare, era infrequentabile a
Londra. Dalle donne, e dalla gente “per bene”. Raccontando “Le sorelle di Shakespeare”,
“quattro donne scrittrici nel Rinascimento” inglese, una delle quali, Elizabeth
Cary, drammaturga, Ramie Targoff spiega che erano frequentati da gentaglia: “I teatri
erano considerati pericolosi per le donne per molti motivi: tra essi borseggi,
fumo, contagi, e uomini libidinosi. Nel 1594 il Lord Mayor di Londra condannava
i teatri perché attiravano «ladri di cavalli, puttanieri e truffatori». Il poeta
Sir John Davies anche lui descriveva il pubblico a teatro nel1593 come fatto di
“un migliaio di borghesi, gentiluomini, e puttane”.
Contemporaneamente la regina Anna, la consorte danese del re Giacomo I, che
regnò nei primi venti anni del Seicento, organizzava a corte dei quadri teatrali,
“The Masque of Queen”, il primo sceneggiato e coreografato da Ben Jonson, in cui
nobildonne seminude impersonavano personaggi storici o epici, in maschera e in
costume, e in silenzio. La prima attrice
donna, sul palcoscenico, si sarebbe avuta, racconta Targoff, a dicembre del
1660 – come Desdemona nell’“Otello”.
Veterani - “Mio zio era
in una delle imbarcazioni del D-Day, lo sbarco in Normandia”, nel 1944, ricorda
Dan Peterson, il colorito allenatore americano di basket:” Sbarcò due volte,
nella seconda stava per rimetterci la vita. Tornò a casa senza un graffio, ma
dopo la guerra diventarono tutti alcolizzati”.
Woke – “Detestano l’Occidente
ma possono esistere solo qui”, Louis Sarkozy – qui in Occidente.
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