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lunedì 27 dicembre 2010

L’Anticristo è l’Europa

L’Anticristo si è impadronito dell’Europa, piccolo borghese. Non è Hitler, anche se l’antisemitismo resta l’occhio ricorrente di Roth sulla storia, fin dalle prime narrazioni. Emigrato politico contro Hitler già da un anno quando scrisse questa perorazione, Roth si pone altre priorità: l’Anticristo è il piccolo borghese (altro suo prisma deformante: perfino il bolscevico rappresenta, nel “Viaggio in Russia", come piccolo borghese), il cinema, la guerra, il giornalismo (i Messaggeri delle mille lingue, agli ordini del Signore delle mille lingue), il razzismo, l’ateismo, il carbone e gli altri veleni, e naturalmente anche l’antisemitismo. Riprendendo i tempi di “Fuga senza fine. Una storia vera”, il romanzo con cui era diventato famoso sette anni prima, scritto anch’esso a Parigi, benché da inviato speciale e non da profugo, in chiave di perorazione – se non già di “Zipper e suo padre”, le prime prove.
È un modesto, essenziale, Elémire Zolla in anticipo. Ma con il consueto fiuto del grande viaggiatore politico, delle escursioni apprezzate in Urss, in Italia eccetera. E non irreale: in questo controavvento molto rothiano, intelligente e mite, l’apocalisse è più vera e profetica che nella violenta redazione originale, evangelica. Tanto più per essere Roth, e voler essere, integrato o assimilato, uno dei tanti, che non ributta una sua diversità sulla cristianità in cui vive, muovendosi quindi tra eventi (fino al Concordato del futuro papa Pacelli con Hitler, a quello precedente con Mussolini, e a uno immaginario con la Metro-Goldwin-Meyer) e simboli noti. Perfino commovente è il suo credo da assimiliato, direbbe sprezzante Scholem, che è anche l’unico modo veramente cristiano di rapportarsi all’ebraismo, alla religione e cioè e al popolo che per primi dissero che “tutti gli uomini di tutti i popoli sono figli uguali di Dio”. Un’integrazione che lo fa purtroppo, con Canetti e Hannah Arendt, il grande scrittore ebreo germanico non assunto, a differenza del Kafka di Max Brod, nel canone ebraico. Nel saggio coevo “L’autodifesa dello spirito” Roth può rivendicare addolorato il privilegio degli scrittori ebrei nei confronti degli scrittori “ariani”: “Siamo gli unici rappresentanti dell’Europa”. Qui ribadisce: “Chi è cristiano stima gli ebrei”. E: “Chi odia gli ebrei è un pagano e non un cristiano. Colui che in generale può odiare, non importa chi, è un pagano e non un cristiano”.
È, collocandolo al suo tempo, non leggendolo cioè retrospettivamente, l’anti-Arbeiter, il “Lavoratore” di Jünger, impregnato della Sorge di Heidegger, la cura o disponibilità umana. Semplice e diretto, più ingenuo anche – gli anni 1930 sono stati anche questo, l’ultimo sprazzo di rivolta romantica contro il macchinismo (prima che la rivolta confluisse purtroppo in Hitler, il vero anticristo). Rivolto all’Europa più che alla Germania: la colpa che intravvede nell’afflizione è di una cultura prima che della tribù, di quella questa essendo in parte vittima.
“L’Anticristo” non è presentato, e forse non è, opera maggiore di J.Roth. Ma rovescia la prospettiva di Magris che “fonda” Roth, (“Lontano da dove. J.Roth e la tradizione ebraico-orientale”, 1971), che l’esilio isola “dalla pienezza e dalla totalità della vita vera”. Perché mostra che non c’è niente in lui che non sia vero, anche nell’esilio – quello politico a Parigi come quello esistenziale. Nella forma tragica, piuttosto che epica, che la sua conoscenza in questa perorazione prende, in particolare per quanto concerne l’antisemitismo, l’anticristo cui dedica i quattro sottili paragrafi finali, ritracciandolo in Israele, in Germania, e a Parigi tra gli uomini di buona volontà. Nello sdoppiamento, per l’insopprimibile senso dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciati, dell’allogeno e dell’indigeno (non ci sono indigeni), del bene e del male, di Dio e dell’Anticristo. Appartenenze che Roth gioca nella distinzione tra Vaterland e Heimat, la patria dei nazionalisti del sangue e la patria della case e della lingua, del sangue anche ma allora in guerra, della vicendevole appartenenza comune, del sentire religioso, della storia, della quotidianeità. Problematico più che assertivo, come solo poteva esserlo chi nel 1934 era pur sempre germanico, di lingua, di storia – per chi altri scrive lo scrittore germanico se non un pubblico germanico? Di eloquenza fine, rispettosa, seppure accorata.
Di Magris Roth identifica piuttosto l’immagine seminale, “L’Ulisse ebraico-orientale”, il saggio del 1970. Certamente non quella di “Nostalgia della fine”, il ritratto che lo stesso Magris ha fatto di Roth sul “Corriere della sera” il 27 maggio 1979, per i quarant’anni della morte, come “maschera della verità”, partendo dal vezzo dello scrittore di divertirsi con intervistatori e biografi: “Nelle ultime opere di Roth un universalismo cattolico, imperiale e teneramente comprensivo dei fugaci erori dei sensi, si affianca fraternamente al senso ebraiico della vita, intesa quale esilio e a un’attesa messianica, identificata come il richiamo di un annullamento cui si continua peraltro a resistere tenacemente”. Dove peraltro il “si” del tenace resistente è Roth: un’intelligenza tenace della vita, malgrado le insidie ripetute del nulla che è la cifra del secolo – J.Roth ha visto tanto, ma morendo nel 1939 non ha visto il peggio.
Joseph Roth, L’Anticristo, Editori Riuniti, pp.165, € 9,90

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