Cerca nel blog

domenica 10 novembre 2019

Letture - 402

letterautore


Carducci - “Una poesia insieme culturale e ingenua”, Montale, “Auto da fé”, 144.

Francia – Non è più la patria del libro, anche se mantiene l’editoria più vivace e stimolante. L’anno scorso, certifica Vigini su “La Lettura”, ha pubblicato ben 107 mila titoli, contro i 79 mila italiani, ma ne ha venduti solo per 2,6 miliardi, contro i 3,1 del mercato librario italiano. Che pure non brilla in Europa, né per vendite totali né per vendite pro capite, rispetto per esempio alla Germania, alla Gran Bretagna (e alla Russia).

Furio Colombo   È “l’ecolalico Furio X” di una invettiva di Montale, poi raccolta in “Auto da fé”, 309, a proposito dei “casi di conforto o di sconforto, ignoti a chi li produce”. L’ecolalico Furio X, dice Montale, “se un giorno Parise scriverà un capolavoro, ne sarà parzialmente l’autore”. Perché, ha spiegato, “il mio amico Goffredo Parise cade in uno stato di nera depressione tutte le volte che gli capita sott’occhio un articolo dell’ecolalico Furio “. Aggiungendo con la nota perfidia. “Non ho letto nulla di lui, ma pare che questo Furio sia uno di quegli agguerriti tecnocrati che sanno e prevedono tutto, infallibili mostri dei futuri stati provvidenziali”.

Germania – “Dio misericordioso!\ Chi crede che io agogni a tornare\ al caldo tedesco afoso,\ alla felicità da camera del tedesco ottuso!” – Nietzsche, “Risposta”, 1884.

Lettore – È quello che fa l’autore – non c’è autore senza lettore. Ogni opera, anche poetica, argomenta Montale in “Variazioni V” (“Auto da fé”), è in realtà una “traduzione”, a opera dello spettatore della messa in scena, del lettore, dell’esecutore: “Non esiste l’arte ma solo l’esperienza estetica, la quale non ha bisogno di assoluti ma di rapporti”.

Montale – Si faceva scrivere recensioni, “parecchie” dice Soldati, di libri nuovi inglesi e americani da Henry Furst, il critico di italianistica del “New York Times”, stabilito da molti anni in Italia, dapprima tra Camogli e Recco poi a San Bartolomeo di La   Spzia, che presentava ai giornali cui collaborava come sue. Ne “scrisse” molte nel dopoguerra, affannato, dapprima perché sprovvisto di un  impiego e di una rendita, poi perché il “Corriere della sera” gliene chiedeva in gran numero, “cinque al mese” adduceva, “per contratto”. Mentre lui si confessava incapace di leggere, di concentrarsi sulla lettura, di farla spedita.
Il fatto è notorio (e consueto: non solo a Furst Montale chiese recensioni, anche a Maria Luisa Spaziani, successivamente, sua nuova fiamma, e si sospetta a Lucia Rodocanachi, con la quale aveva avuto una breve storia). Confermato - pochi giorni dopo Soldati e il “Corriere della sera” con un’anticipazione di “Rami secchi”, la raccolta di varia di Soldati - da Marcello Staglieno, che decise di pubblicare le lettere di Montale con le richieste, a lui confidate da Orsola Nemi, vedova di Furst, e ne dava anticipazione al “Giornale”. Ma Soldati, che di Furst fu sempre grande amico, anche nell’isolamento, pre- e post-bellico,  fino alla morte, a Ferragosto del 1967, racconta in “Rami secchi” di una viltà di Montale verso l’amico nel 1956, quando, redattore del “Corriere della sera”, non aveva più bisogno del suo aiuto “alimentare”. Dalla raccolta “La bufera e altro”, pubblicata in quell’anno, espunse un poemetto in prosa che aveva scritto, a memoria, nel 1943, su un soggiorno che l’amico gli aveva offerto qualche tempo prima – pubblicandolo, va aggiunto, in “Lettere d’oggi”, bimestrale a scarsa circolazione di Roma, nel numero di marzo-aprile dello stesso anno.  Lo rese noto riesumandolo per intero sul “Corriere della sera” due anni dopo la morte di Furst, il 18 maggio 1969, e spiegandone l’origine. L’esclusione addebitando a ragioni stilistiche: “Fino a quel tempo io non ero autore di nulla che potesse dirsi narrativo e non avevo intenzione di iscrivermi sotto quel’etichetta”. Soldati dice che non è una ragione valida. Soprattutto a fronte della gioia immensa che il poemetto avrebbe dato a Furst, uno che sopra a tutto privilegiava l’amicizia. E attribuisce l’esclusione al rapporto un po’ truffaldino che Montale aveva intrattenuto con l’amico.
Ma un’altra ragione è (anche) probabile: Furst era diventato un innominabile. Era personaggio rispettato, in Italia e in Europa, ma non comodo. Rispettato da Moravia, Mauriac e Henry Miller, oltre che da Soldati, ma pure da Pound, Drieu La Rochelle e Ernst Jünger. “Sgradito ai fascisti”, lo dice Soldati, perché americano e presunto omosessuale, era diventato nel dopoguerra collaboratore del “Borghese”, il settimanale anti-sinistra. Dal tempo di Longanesi, che “Il Borghese” aveva fondato, vi era rimasto confinato, peraltro assiduo, anche quando il settimanale era diventato organico all’Msi.
In un lungo memoir su Montale al “Corriere della sera”, pubblicato sul quotidiano il 12 novembre 1989 dopo l’anticipazione di Soldati, Gaetano Afeltra, redattore capo al giornale poi, da direttore del “Corriere” pomeridiano, inventore del Montale critico musicale, incarico che terrà per tutta la permanenza al giornale,  spiega che il futuro Nobel era molto ben trattato al giornale, da subito, con una stanza propria di fronte a quella del direttore, ma che i primi tempi era intimidito e innervosito dalla novità, il trasferimento a Milano, la stanza d’albergo, la redazione, e non aveva capito che i “cinque articoli al mese” contrattuali erano una formula ragionieristica per pagargli un certo ammontare di spettanze. Aggiunge anche, a proposito di Furst, avendo avuto accesso alla corrispondenza che Montale aveva indirizzato ai vari direttori e redattori influenti del giornale per farsi assumere, che lo chiamava “il pazzo”. Così scrivendo, “il 5 dicembre 1946, a Silvio Negro, il famoso «vaticanista» del giornale: «Caro Negro, tu sei, nel giornalismo, una rara avis, l’avevo già intuito parlando col ‘pazzo’…»”. Il “pazzo”, spiega Afeltra, “era lo scrittore americano Henry Furst”, di cui tratteggia la biografia. A Padova nel 1919 per la storia dell’arte di cui era specialista, fraternizzò con Silvio Negro. Che lo introdusse fra i suoi amici letterati, di cui “ottenne le simpatie per intelligenza vivacità e cultura”. “Uomo estroso e generosissimo” lo dice ancora Afeltra, raccogliendo l’aneddoto di Furst a Fiume, che una notte in un bar, sentendo di una prostituta che va ad abortire, la prega di non farlo. E all’obiezione della donna: “E già, me lo mantieni tu?, risponde: “Te lo mantengo io”. “Nacque una bambina”, prosegue Afeltra, “e la mantenne davvero. L’amico Negro le fece da padrino. Oggi è sposa e madre”.  A Fiume Furst era con D’Annunzio, di cui divenne il segretario.
Curiosamente, tra le lettere al Corriere della sera” che Afeltra menziona, una indirizzata a Filippo Sacchi nel novembre del 1945 vanta una speciale sensibilità di Montale per le recensioni: “Le mie vecchie recensioni a libri di racconti, romanzi ecc., tutte fatte con stile da croniqueur, mi erano state chiese da Croce per Laterza!”. Ma in precedenza lo stesso Afeltra, intervenendo il 25 ottobre sul “caso Furst”, testimoniava la scarsa propensione di Montale alla lettura: “Si annoiava di leggere i libri e io lo vedevo sfogliarli sospirando e leggendo i risvolti di copertina. I libri li annusava”, scusandolo, “ma è quello che fanno molti recensori”.
In un racconto del 1949, “La gazza ladra” (in “Accoppiamenti giudiziosi”), Gadda ironizza sull’amicizia Montale-Furst parodiando un episodio avvenuto l’anno prima. Drusilla Tanzi, la “Mosca” che Montale dopo qualche tempo sposerà, accuso Furst di averle rubato un anello. Non era vero, ma Montale non incontrò più Furst in presenza di Drusilla – erano gli anni in cui gli chiedeva le recensioni.

Nabokov – “Un meraviglioso comparatista”, quale in effetti era, Montale scova Nabokov alla lettura di “Lolita” nel 1959 (“Variazioni IV”, in “Auto da fé”): “Il russo Nabokov non ha uno stile inglese suo, e ne è perfettamente consapevole: scrive come oggi si deve scrivere in America per avere lettori e per poter vendere”.
Ma è farina del sacco di Montale – v. sopra? La notazione sembra caratteristica di Furst.

Nazionalismo – Non fa bene alle nazioni? È il caso di Barcellona, che col nazionalismo catalano ha perduto in due anni lo status di città simbolo del cosmopolitismo, meta privilegiata del nomadismo turistico e giovanile. È il caso anche degli Stati Uniti, dove il numero dei visitatori esteri è rimasto praticamente stabile nei tre anni di Trump, dopo il 2016 – mentre è aumentato del 5-7 per cento altrove, in America Latina, in Europa, in Asia.

 Occidentale – Suona strano in tedesco. È politico, quasi polemico, il titolo del primo volume dell’ultimo fluviale Habermas (millesettecento pagine in due volumi), “Anche una storia della filosofia”: “Die okzidentale Konstellation von Glauben und Wissen”.

Russia – È il paese europeo dove si legge di più (tra libri e giornali): 7,5 ore mediamente a settimana, secondo i rilevamenti a campione del settore. Al secondo posto, in Europa, viene la Germania, con 5,7 medie settimanali, tallonata dall’Italia, 5,6 – al di sotto della media mondiale, 6,5 ore settimanali.

“Il Sole 24 Ore” illustra oggi la recensione di Šklovskij, “Viaggio sentimentale”, con la foto di una manifestazione di protesta a Pietrogrado, l’attuale San Pietroburgo, il 18 giugno 1917, prima del colpo di mano bolscevico, con una folla in posa molto ben vestita e molto “occidentalizzata”.

Übersetzerstreit, contesa dei traduttori – Se ne fanno periodicamente in Germania, di contese, la più recente e famosa è quella degli storici, a proposito del nazismo, e una dei traduttori non sarebbe male, dei traduttori di Heidegger. Non uno dei quali collima con un altro anche nei “concetti fondamentali”, anzi soprattutto in quelli. E così abbiamo tanti Heidegger quanti sono i traduttori.
Heidegger stesso aveva posto molta cura, articolando nei suoi ultimi anni la colossale opera omnia in 120 e passa volumi, in quelli che chiama i suoi “concetti fondamentali”. Ma con definizioni non univoche, o comunque non ali da prestarsi a essere rese in traduzione con esattezza – si direbbe Heidegger talmente basico da restare indefinibile, sia pure per essere pregnante.
Al Book City milanese, la fiera libraria, l’editrice NN può proporre trenta racconti dello stesso autore tradotti da trenta traduttori diversi (l’autore è Robert Coover).
La traduzione è una gara, fra i traduttori. C’è chi vuole meglio, cioè significante, in lingua il testo. Chi vuole restare fedele all’originale. Chi lo interpreta. E, nel caso di una scienza, come la filosofia, di renderlo “aderente” all’originale. Questo, contrariamente alle apparenze, è il metodo più insidioso: da qui la traduzione come Streit, piccola guerra.


letterautore@antiit.eu

Nessun commento: