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Altro che dazi, la Cina resta maestra del commercio globale
I dazi orientano la politica commerciale ma non la
esauriscono, e anzi sono la parte minore, per quanto molto visibile, di
essa. Sono “descritti come lo strumento principale, o addirittura l’unico,
con cui i governi intervengono nel commercio globale perché “sono facili da
manovrare, più facili da politicizzare (ora con Trump, n.d.r.) e prontamente
utilizzabili nei negoziati bilaterali. Ma questa attenzione ai dazi è fuoviante….
I dazi sono solo uno dei tanti strumenti che un governo uò utilizzare per
modificare lo squilibrio interno di un Paese”. Di più incidino sulle politiche
commerciali “scelte politiche che non sembrano affatto correlate al commercio”.
Un elenco lungo se ne potrebbe fare, e non esaustivo: “Decisioni fiscali e
monetarie, strutture normative, politiche del lavoro, norme istituzionali possono
influenzare la distribuzione del reddito e l’equilibrio tra consumi e
produzione nelle economie, con implicazioni di vasta portata per il commercio globale”.
I dazi sono forse quelli che incidono di meno.
Gli effetti dei dazi sono peraltro più complessi di
quanto appare: sono “un trasferimento di reddito” all’interno, oltre che una
misura commerciale – incidono sul commercio in quanto spostano quote di reddito
dal consumo alla produzione. Se favoriscono la produzione nazionale e il’occupazione
è ad uncosto: “I consumatori pagano di più per beni e servizi”. Al dettaglio –
per le famiglie – e nell’insieme. “Questo spostamento del redditodai
comsumatori aiproduttori” è l’essenza di una politica commerciale aggressiva: “Che
si trtatti di una ariffa, di un sussidio fiscale o di una legge sul lavoro che
comprime i salari, il risultato è un cambiament nella distribuzione interna del
reddito che ha anche implicazioni esterne. Se i consumi sono tassati e la
produzione è sussidiata, è probabile che le esportazioni nette aumentino. Al
contrario, se le politiche spostano il reddito dai produttori ai consumatori, è
probabile che le esportazioni nette diminusicano”. Inoltre, spostando l’equilibrio
tra consumi e produzione si sposta l’equilibrio tra risparmio interno e investimenti
interni”.
Lo stesso effetto si può ottenere con la politica
valutaria, del cambio. Con la politica
dei tassi. Entrambe maneggiabili fino a rappresentare “di fatto una tassa sul reddito
dei rispamiatori netti (il settore delle famiglie) e un sussidio al credito per
debitori netti (il sistema produttivo)”.
In conclsione, “come sostenne John Maynard Keynes a
Bretton Woods nel 1944, il fatto che un’economia diversificata registri
persistenti surplus commerciali è solitamente una prova dell’esistenza di
interventi distorsivi del commercio”. E con Keynes arriviamo alla Cina, su cui
l’argomentazione di Pettis – socio senior del Carnegie Endowment for International
Peace e professore di Economia all’università di Pechino – converge.
Ci sono governi che forniscono sussidi, diretti e indiretti,
anche solo privilegiando le infrastrutture, a settori che ritengono strategici.
Oppure raggiungono lo stesso obiettivo “rendendo più economico o più attraente
produrre che consumare – un cambiamento interno che produce un effetto esterno”.
O gestendo il mercato del lavoro. “In Cina, ad esempio, il sistema houkou
– un sistema di registrazione delle famiglie che limita i diritti dei migranti
rurali nelle aree urbane – ha a lungo contribuito a deprimere i salari e a ridurre
i consumi delle famiglie”. Anche solo limitando la possibilità di organizzazione
sindacale. “Più in generale, limitando in vario modo i consumi mentre la
produttività cresce, queste politiche creano gli stessi tipi di squilibrio dei dazi,
ma lo fanno in modo più discreto”. Si spiega così che si possono registrare “persistenti
surplus commerciali pur mantenendo dazi relativamente bassi”.
Michael Pettis, Behind the Veil of Tariff Fixation,
Imf “F&D”, Finance&Development, settembre 2025 (leggibile anche in
italiano, Dietro il velo dell’ossessione tariffaria)
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