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martedì 26 agosto 2025

Il mondo com'è (484)

astolfo

Gertrude Bell Quello che le riuscì in politica, sola, combattiva, pratica, in un mondo tutto maschile, isolata nel mezzo del mondo arabo diviso e bellicoso alla dissoluzione dell’impero ottomano, non le riuscì nella vita privata. Si è fantasticato di una sua amicizia particolare con Vita Sackville-West – il “personaggio” che provò anche a fare la scrittrice ma resta famosa per il giardinaggio, e per le vantate relazioni extraconiugali da amazzone intrepida, specie con Virginia Woolf, e poi con Violette Trefusis (benché coniugata, con Harold Nicholson, che anche lui si voleva gay, dopo avere fatto insieme un paio di figli). Gertrude Bell non era donna da pettegolezzo: la corrispondenza con Vita Sackville-West, che più che altro deve a lei ispirazione e motivi dei suoi racconti persiani, è solo rispettosa, da buona educazione: le due gentildonne si erano incontrate socialmente, forse a Costantinopoli,  forse a Londra. Nel 1926 Vita si recò in visita da Gertrude a Bagdad, lei di 34 anni,  Gertrude di 57, e già stanca – reduce dalla terza, e a questo punto ultima, sfortunata avventura amorosa, con Kinahan “Ken” Cornwallis, diplomatico, che gli annali registrano nella qualità di consigliere (per conto di Londra) del re iracheno Feisal I – che Gertrude aveva messo in trono a Versailles, alla dissoluzione dell’impero ottomano, praticamente da sola.

Gertrude ebbe tre relazioni importanti, ma morì sola, di dispiacere. Il primo innamorato, Henry Cadogan, 24 anni, conosciuto in Persia da ragazza al suo primo viaggio, che sembrava la scelta ideale, lo perse per l’opposizione ferma del proprio padre, il padre di lei. Gli altri due perché erano sposati. Cadogan era il segretario dello zio di Getrude, Frank Lascelles, ambasciatore britannico a Teheran, e compartiva con Gertrude la passione per il poeta e mistico sufi Hafez, che lei tradurrà. Ma aveva il vizio del gioco, con molti debiti – come il padre evidentemente sapeva dal cognato Lascelles - e sarà qualche tempo dopo trovato morto in un fiume ghiacciato sulle montagne in Persia. Il secondo amore era stato per “Dick” Doughty-Wylie, durante la Grande Guerra, dopo l’incontro a Costantinopoli, dove lui, ex colonnello, coetaneo, era in missione diplomatica: fu un amore per lo più epistolare, lui era  sposato, e presto morirà, nel 1915, due anni dopo la prima conoscenza, in guerra a Gallipoli – “Dick” familiarmemte, in realtà Charles. Il terzo amore, Kinahan “Ken” Cornwallis, lavorava con lei, per conto del governo britannico, “consigliere” del re Feisal, alla creazione dello stato iracheno attorno alla famiglia hascemita - presso il quale sarà poi ambasciatore di Londra: sposato anche lui, fu l’ultima illusione-delusione, quella che la mostrerà ultracinquantenne e disfatta all’incontro richiesto da Vita Sackville-West nel 1925. A lui, in quei giorni a Bagdad, Gertrude scrisse un biglietto il giorno prima della morte, per chiedergli di occuparsi della cagnetta Tundra - Cornwallis ignorò il biglietto, la domanda implicita di aiuto.
Morì di troppe pasticche il 12 luglio 1926, a Bagdad, la notte dopo una cena ufficiale. Era indebolita, da malaria, bronchite, pleurite. Forse reduce da una diagnosi, a gennaio dello stesso anno, in visita in Inghilterra, di cancro ai polmoni - era grande fumatrice. In lutto per la morte del fratello Hugo, di tifo. Di sicuro si sentiva isolata, benché onorata in Iraq. Isolata nel femminismo, che non condivideva - si era opposta al suffragio femminile. Mark Sykes, eminenza grigia al Foreign Office, quello dell’ultimo imperialismo coloniale europeo (laccordo Sykes-Picot, anglo-francese, per la spartizione del Medio Oriente) la disprezzava perché donna - Gertrude non ne fu sopraffatta perché Sykes morì di spagnola, a Parigi per i colloqui di pace (e di spartizione dell’impero ottomano). Della insorgenza araba tutto il merito veniva dato a T.E.Lawrence, di venti anni più giovane, e sempre indeciso.
Molto si è scritto sul fatto che viaggiava per il Medio Oriente semidesertico e “inesplorato” con vere e proprie spedizioni, di servitù per ogni funzione, bagagli innumerevoli, e l’esibizione di mise  vestimentarie e cosmetiche più variate e aggiornate. Volendo, si potrebbe argomentare, conoscendo poco poco il mondo arabo, specie quello tribale e nomade, che non lo faceva per eccentricità ma per manifestare i segni del potere, necessari, tanto più a una donna. Ma viaggiava a cavallo, in sella anche per molti giorni, per molte ore al giorno. E amava le montagne: nel 1911, quando si apprestava alla terza spedizione in Medio Oriente, a 43 anni, contava dieci prime scalate nelle Alpi Bernesi. In quella spedizione, nel 1913, si avventurò nel deserto del Negev, il Quarto Vuoto della penisola arabica, una dei tre o quattro europei sopravvissuti alla traversata, fino a Hayil, quartier generale di Ibn Rashid, potente emiro dArabia, fedele agli Ottomani - che presto sarà sopraffatto, morendo in battaglia, da Ibn Saud.    
La prima donna laureata a Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. Solidamente: il primo libro moderno (contemporaneo) sull’Iran, repertorio di molti successive, anche per la parte politica. Specie l’inconsistenza del potere imperiale, se non nelle forme di accettazione rituali – si era devoti allo scià come oggi alla Guida Suprema, come si lacrima per Husseyn a metà del mese di Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera. 

La prima, moderna, fattuale, scrittrice di viaggi. La sua opera prima, nel 1894, “Ritratti persiana”, mantiene una singolare vivacità e veridicità ancora oggi, un secolo e quasi mezzo dopo. Id è il primo racconto del Medio, o Vicino, Oriente dal vivo, di cose viste. Racconto ferace, battistrada di Robert Byron, Vita Sackville-West, Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton naturalmente. “L’Oriente guarda se stesso: non sa nulla del mondo esterno di cui sei cittadino, non ti chiede niente di te e della tua civiltà”. Valeva allora, 1894, forse meno di quanto valga ora. Anche perché Oriente e Occidente, anatomizzati, sono concetti storici più che geografici, poco congruenti e anche poco consistente. E tuttavia con un fondo di verità. Una donna iraniana, pur dopo un secolo di modernizzazione, e libera sessualmente, fino al sighé, il matrimonio a tempo, resta ritrosa e in difficoltà alla stretta di mano, tanto più all’abbraccio e bacio di saluto. Ancora più vero ai capitoli sui nomadi, la civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di infelicità, di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le torri del Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i giardini segreti. In un Oriente “segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui più non si può più dire dopo Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un palestinese, cioè un arabo “occidentale”, anche nella critica).

La prima funzionaria militare britannica. Per di più nel settore intelligence, ingaggiata dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali. Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini - che in qualche misura reggono, malgrado le persistenze tribali indistruttibili.
(3. fine)
 
George Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) – Violinista mulatto, esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo violino dell’orchestra del principe di Galles (il futuro re Giorgio IV). In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel 1803 fu a Vienna, dove strinse amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata per violino e pianoforte op. 47 – poi nota come “Sonata a Kreitzer”. Con una dedica scherzosa. “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Il rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione della sonata, a maggio del 1803. Il compositore Carl Czerny annotò: “Bridgetower suonava in modo molto stravagante. Durante l’esecuzione della Sonata, con Beethoven ridevamo di lui”.
La Sonata era stata approntata però in fretta, sia la composizione che l’esecuzione. La parte del violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima. Il secondo movimento Bridegtower poté leggerlo sol sullo spartito del pianista, non essendoci stato il tempo per copiare lo spartito. In calce alla copia della sonata in suo possesso Bridgetower aveva introdotto una cadenza al “Presto” del primo tempo, che Beethoven aveva accolto entusiasticamente, Ma non ne tenne pi conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a Rodolphe Kreutzer, grande violinista francese,da Beethoven conosciuto a Vienna già nel 1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona e brava persona di cui ho molto goduto la compagnia  durante il suo soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi sono più care di tutto quanto esteriore o interiore nella maggior parte dei virtuosi”.
Come s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven cno Bridgetower?  Secondo il musicologo australiano J. R. Thirlwell – non una fonte affidabile - c’era stata una lite per via di una ragazza. Probabilmente Giulia Guicciardi, la nobildonna austriaca , nata in Polonia, che era stata allieva di pianoforte di Beethoven, futura contessa  von Gallenberg.
Kreutzer non gradì l’omaggio e non eseguì la sonata, scusandosi che era troppo difficile, e che comunque era già stata eseguita. Secondo Berlioz aveva trovato a sonata “oltraggiosmente inintelligibile”.
 
Bugatti – Ritorna la Bugatti, un prototipo,  a ricordo della bellezza che contraddistingueva il marchio - una hypercar, da 26 milioni. In precedenza si erano fatte, su richiesta, 500 Chiron, numero chiuso, e 250 Tourbillon. La nuova Bugatti si chiamerà Brouillard, la nebbia, ha solo 1.600 di cilindrata, ma un apparato bijoux.
È un “emigrato” milanese, Ettore Bugatti, l’ideatore dei modelli che fecero epoca tra le due guerre e il fondatore della casa automobilistica col suo nome, nel 1909 (cesserà l’attività nel 1973, venticinque anni dopo la sua morte). Aveva cominciato presto a Milano Bugatti, a 14 anni, quando, iscritto all’Accademia di Brera, montò su un triciclo Prinetti e Stucchi un motore De Dion-Bouton. Tre anni dopo aveva abbandonato l’Accademia per entrare nella fabbrica – Prinetti e Stucchi faceva biciclette e macchine da cucire. E con i modellini di triciclo da lui adattato partecipava alle prime corse. Nel1898, a 17 anni, metteva a punto la prima, Tipo 1, di una serie lunga di Tipo – che era anche la prima macchina a montare gli pneumatici Pirelli: un triciclo, cui applicò un motore da 4 cv, con il quale partecipò a due corse, la Nizza-Castellane in Francia e la Verona-Brescia-Mantova-Brescia, vincendole entrambe. Era il 1899. L’anno dopo era in grado di aprire una officina propria, e di costruirci la prima vera automobile, che chiamò Tipo 2. Si procurò il capitale necessario costituendo una società con due ricchi fratelli di Ferrara, i conti Oberto e Olao Gulinelli, allevatori di purosangue.  La Tipo 2 volle già “lussuosa” – ma corse e vinse nel 1901 il Gran Premio di Milano.
Questa vittoria lo portò all’attenzione di un importante industriale metallurgico alsaziano, De Dietrich, che lo volle suo manager – il contratto fu firmato dai genitori del neo designer-costruttore, ancora minorenne. Con De Dietrich partì la seconda vita del giovane Bugatti, dapprima in Germania poi in Francia – seguendo gli spostamenti dell’Alsazia, regione mista di frontiera. Con De Dietrich Bugatti realizzò altre due Tipo. Ma nel mentre era già passato a collaborare con altre aziende, la francese Mathis e la tedesca Deutz, di Colonìa – con altri quattro modelli di Tipo. Poi prese a lavorare in proprio, costruendo nel garage una Tipo 10, spartana, non “bugattiana”, ma tecnicamente avanti (distribuzione ad asse a camme in testa).
In meno di un decennio fu in grado di lanciare la sua propria casa, la Automobiles Ettore Bugatti. Macchine legger ma potenti, ed eleganti. La fondò nel Basso Reno, a Molsheim, dove era arrivato da ragazzo con De Dietrich. La prima Bugatti fu quindi una casa automobilistica tedesca. Diventerà francese nel 1919, col trattato di pace.
Sempre memore dei Golinelli, che lo avevano aiutato per primi, gli allevatori di purosangue, volle per le sue vetture un caratteristico radiatore a forma di ferro di cavallo – e un figlio battezzò Gianroberto, come il figlio del conte Olao. Al salone di Parigi del 1910 poteva presentare la sua macchina, la Tipo 13, del modello che in francese fu battezzato “torpedo”, come il pesce, due posti, scoperta e a carrozzeria filante – il tipo poi “spider”. Una macchina sportiva, successivamente ingrandita  per quattro e sei posti, con una capote a copertura. L’attività fu sospesa durante la guerra, che vide i capannoni di Bugatti distrutti.
Già allo scoppio della guerra, molto prima che l’Italia scendesse in campo contro gli Imperi centrali, Bugatti si era precipitato a rientrare a Milano. Da dove, col fratello Rembrandt, tornò al prolungarsi della guerra in Alsazia per sotterrare tre motori da competizione che aveva approntati primo della deflagrazione.
Furono cinque anni drammatici per Bugatti – anche per il suicidio di Rembrandt. Tornerà in possesso della fabbrica, solo macerie, nel 1919, con la nuova nazionalità Francese. Riavviò l’attività con il ricavato della vendita di molti brevetti ai concorrenti. Coi motori ideati prima, e sepolti durante la guerra, costruì una 1.500 bialbero in testa, la Tipo 13, continuando a vincere tutte le gare, nel 1920 e nel 1921.
Il designer-costruttore era di una famiglia di artisti, di Nova Milanese. Il padre Carlo era designer  di mobili e gioielli in stile “floreale”. Rembrandt, il fratello minore che poi si suicidò, era scultore. Una sorella della madre, la zia Luigia, detta “Bice”, era la moglie di Segantini, il pittore. Il nonno paterno, Giovanni Luigi, era scultore anche lui, e architetto.
 
Giustino Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che fece lunga e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria e incarichi pubblici, ricoperti sotto il re Ferdinando II. Dopo essere stato uomo di fiducia di Gioacchino Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola di Pozzo.
 
Gladstone - Il liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.
Delle prigioni napoletane tanto famosamente da lui screditate, confesserà che non ne aveva mai visitato una.

astolfo@antiit.eu

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