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mercoledì 14 gennaio 2015

Il romanzo della Grande Guerra, special edition

Un addio alla vita, più che alle armi. La tristezza è immensa, troppe morti, troppe guerre, nell’introduzione del 1948 qui riproposta - già prima quindi che la lite continua col figlio Gregory, il vero bevitore e cacciatore grosso, e con la di lui madre Paulette (che per questo morirà) lo avvelenasse a morte: “Il titolo del libro è «Addio alle armi», ma eccetto che per tre anni c’è stata sempre una qualche guerra da quando è stato scritto”. E tutti, più o meno, sono morti: “Scott Fitzgerald è morto, Tom Wolfe è morto, Jim Joyce è morto…”. Mentre riscrivevo il libro a Parigi, ha detto all’inizio (“non avevo ancora trent’anni”), “mio padre sì è ucciso a Oak Park nell’Illinois”. Non è tutto. Il libro è uscito il giorno del grande crac di Wall Street. Roba da maghi. Ma ha difficoltà Hemingway a farci su dello spirito, è il romanzo stesso che è un addio alla vita. Combattono le guerre, ne sono vittime, “le persone migliori”. Un romanzo – un autore? – non vitalistico: triste, quasi cupo.
Il capolavoro di Hemingway è riproposto per il centenario della Grande Guerra, con molti materiali filologici: una dozzina di prime stesure, una lunga lista di titoli alternativi, una serie di finali alternativi, ben 47. E due note molto letterate degli eredi, il figlio Patrick, il nipote Sean, figlio di Gregory – il dna Hemingway è letterario. Il romanzo, scritto di getto tra il 1928 e il 1929, è anche molto lavorato. Curiosamente non riproposto in italiano per il centenario, anche se rimane il “Dottor Živago” della nostra Grande Guerra – senza il grande film purtroppo (ma il libro è calcato su “Addio alle armi”, a naso e per troppi riscontri). E come tale riletto un paio di generazioni fa: inaugurò gli Oscar nel 1965, vendendo 600 mila copie in due mesi.
Il “Dottor Živago” italiano
Evocativo, eroicizzante, seppure al modo hemingwayano, su sfondo di morte, onnipresente, e diligente. Nella toponomastica: la Milano di San Siro un secolo fa, la Milano ancora di canali e giardini, la lunga ritirata fino a Mestre, tutto è evocativo e preciso. Nella cronaca: è la “terribile estate” del 1917, delle offensive sterili a ripetizione, degli ammutinamenti. Nel multilinguismo. Sensibile anche alla fede, e al culto. Commosso e ugualmente partecipe. Sui temi dell’amore e della morte, che lo scrittore martoriarono fino al suicidio, ma con un rispetto quasi patriottico 
È la storia di un amore felice: corrisposto e sempre pieno. Che Dio invidioso tronca con la morte, con due morti, del bambino che deve nascere e della madre. Sullo sfondo, accurate come in nessun’altra opera italiana, benché Hemingway sia arrivato al fronte un anno dopo, l’offensiva della Bainsizza, l’XIma offensiva sul Caro, e la XIIma, la ritirata da Caporetto. Con i carabinieri che attendono al varco, all’unico ponte della ritirata, gli sbandati e li fucilano all’istante - con “la freddezza e il controllo di se stessi degli italiani che sparano e non sono sparati” (tra i materiali dell’appendice una pagina ancora più terribile sulle esecuzioni, sula pena di morte). Tante morti e sofferenze, a Caporetto e dintorni, che ora sono, come erano, Slovenia.
L’edizione italiana è purtroppo ferma alla traduzione di Fernanda Pivano. Anche se rafforzata dalla breve, ulcerante, introduzione del 1948. L’originale, riletto in parallelo con la traduzione, è molto semplice, e per questo insieme drammatico. Con un inatteso flair proustiano semmai (c’è pure la Normandia: “I paesaggi normanni nessun pittore li ha fatti meglio”), e non ante-beat, sebbene il remoto di Hemingway sia sempre vivo e attivo. La traduzione  è invece da birignao, introdotta da una terrificante nota della stessa traduttrice, piena di sé e di pettegolezzi, e di un antimilitarismo da repertorio, tutto l’opposto del romanzo. L’edizione corrente negli Oscar solo si riscatta con la copertina, di un Hemingway “al naturale”. Senza barba, giovane di vent’anni quale era nella guerra, nel letto dell’ospedale a Fossalta, Gorizia, e senza pensieri.
Harold Bloom, che pure ha pubblicato “Addio alle armi” come una delle sue “Guide” alla lettura, esclude Hemingway dalle seicento pagine che prepara sugli americani “sublimi”, “The Demon knows: Literary Greatness and the American Sublime”, e invece ci rientra a pieno titolo. Con altri testi, ma con questo in particolare. Per la scrittura, sempre della “giusta” misura, e per i “grandi” temi che impone, della vita, della morte, della guerra. È il romanzo dell’acqua - della madre assente, della vita sfuggente: dei fiumi, dei laghi, delle pozzanghere e gli abbeveratoi, della pioggia che è incessante. Le stagioni si succedono ma nient’altro di esse è rilevato, non i colori, non gli odori o i calori, giusto la pioggia. E della guerra solo morti si vedono, casuali, ordinarie. La guerra Henry rifiuta, con la ritirata di Caporetto, ma senza colpa. Né tarde professioni di antimilitarismo alla Barbusse, che legge ma non apprezza. Senza disertare – che non è possibile, ma sottrarsi sì. Benché in una storia di vinti: “Sei morto. Non sai nemmeno perché. Non hai avuto mai il tempo d’imparare”.
Ernst Hemingway, A Farewell to Arms (special edition), Vintage, pp. 328 € 11,98

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