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Giallo ebraico
Due
giovani espatriati, un polacco e un rumeno, uno povero e uno ricco, studiano a
Liegi, conviventi in una modesta pensione - il ricco ha diritto a pranzare,
solo, con cibo cucinato per lui, in sala da pranzo, gli altri in cucina. Non
può funzionare e non funzionerà. Dopo la guerra e qualche decennio, i due si ritrovano
in America, il povero è telefonista in albergo, il ricco è diventato padrone
dell’albergo, della città dell’albergo, delle miniere che hanno fondato la
città. Non ci può essere convivenza, e non ci sarà.
Un
racconto del ricco e del povero che Simenon non ha potuto animare. La seconda
parte, la ripresa in America, ha tutta l’aria di un ripiego per fare di un racconto
un volume, della serie “duri” - il thrilling in secondo piano, rispetto agli ambienti e ai caratteri.
Quello
che è interessante è che i due, il ricco e il povero, sono ebrei. Che sono caratterizzati
per essere ebrei. E che Simenon ha ripreso la prima parte, il racconto originario,
in America, dove si era rifugiato nel dopoguerra per sfuggire alla
denazificazione - all’accusa di collaborazionismo con i
tedeschi nell’Occupazione, e di antisemitismo. Qui mette in scena due “ebrei
erranti”, antipatici, anche a se stessi, e l’uno con l’altro. Simenon impunito?
Un
motivo d’interesse marginale ma non insignificante, è che il polacco è di Vilnius
- tra baltici e slavi il pendolo oscilla sempre agitato.
Georges
Simenon, Delitto impunito, la Repubblica-La Stampa, pp.187 €9,90
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