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L’ebraismo prima di Israele
Ulisse è uno che non sa chi è. La stessa confusione è
degli ebrei, “questi Ulissi erranti che, non diversamente dal loro insigne
prototipo, non sanno chi sono”. Si sono assimilati entusiasti, in questi ultimi
centocinquant’anni (H. Arendt scriveva questo “Noi profughi” nel gennaio del
1943), e poi hanno preso a suicidarsi. “Erano tanto sereni gli ebrei austriaci
fino al 1938”, erano l’invidia di tutti: “Quando poi le truppe tedesche invasero
l’Austria e i gentili cominciarono a manifestare davanti alle case dei loro vicini
ebrei, gli ebrei austriaci cominciarono a suicidarsi, senza spiegazioni,
diversamente dagli altri suicidi” - “parlo di fatti impopolari”, interloquisce Arendt
con se stessa, non del solito ribelle folle, che vuole “uccidere in sé l’intero
universo”, ma di “un modo silenzioso e segreto di scomparire” (in un testo qui
non ricompreso, la recensione nel 1943 di Zweig, “Il mondo di ieri”, fa a pezzi
lo scrittore, come epitome dell’orgoglio dei letterati, che non si spiegavano
il nazismo neanche quando li mise nel mirino).
Ma, poi, anche il sionismo non la persuade, in un saggio
di poco posteriore, ottobre 1945, “Ripensare il sionismo”. I sionisti sono, in
un certo senso, gli unici a volere sinceramente l’assimilazione (“essere come
gli altri”). Sono una piccola élite, di intellettuali sradicati, sia in
patria che nella diaspora. Il loro errore è la valutazione dell’antisemitismo
come conflitto tra nazioni, che si radica nella tradizione ebraica del “noi e
loro” - come dice Herzl, il fondatore del sionismo, “una nazione è un gruppo di
persone tenute assieme da un comune nemico”. Il sionismo spunta dalla - e punta
alla - “eccezionalità” ebraica. Non un grande sforzo intellettuale: “Il
sionismo non è altro che l‘accettazione acritica del nazionalismo tedesco”.
Erano una piccola
élite nel mondo conosciuto, sarebbe stato più giusto dire: ad Hannah
Arendt era completamente ignota l’Europa orientale, dalla Polonia alla Russia, la moltitudine ebraica che ha poi creato e forgiato Israele. E di suo dà poco peso all’impatto sul
mondo ebraico delle patrie nell’Ottocento, dei nazionalismi e degli
irredentismi, dei risorgimenti – a loro volta assortiti di “primato”.
La raccolta, questa come le numerose altre su Hannah
Arendt e l’ebraismo, è interessante come una sorta di dibattito, di assemblea
dell’ebraismo, dei problemi che si pone o deve affrontare – Arendt li espone e
li dibatte. Singolarmente remoti dall’ebraismo dopo Israele. Questo però è
invece motivo d’interesse: un mondo la raccolta rappresenta di cui Israele, più che
la Shoah, sradicherà le certezze – convivenza, democrazia, liberalismo,
prosperità, materiale e morale. Di un umano, ovvio e giusto, disegno di accrescimento,
del reddito, della sicurezza, della soddisfazione.
La raccolta è di testi, per lo più brevi, contribuiti
da H. Arendt, recente immigrata in America, tra la fine del 1941 e l’aprile del
1944 alla rivista “Aufbau”, un settimanale di cultura e problemi ebraici pubblicato
a New York, a cura di un New York Club, per i profughi ebrei di lingua tedesca, dall’impero austro-ungarico e dal Reich germanico,
una sorta di foro della diaspora ebraica. Ma in contemporanea H. Arendt trattava
di argomenti analoghi su “Menorah Journal”, “Jewish Social Studies”, “Jewish
Frontier”, “Commentary”.
Gli scritti su “Aufbau” sono prevalentemente sul tema
l’ebreo come paria.
“Ebraismo e modernità”, la vecchia antologia Feltrinelli,
1993, a cura di Giovanna Bettini, è più significativa, anche sostanziosa, di questa,
pubblicata nel 2002, che ora si riedita – con un vecchio saggio di Leone
Traverso. Ripresa dal tedesco, l’antologia curata da Marie Louise Knot, la pubblicista
che tra i suo interessi ha anche H. Arendt.
Hannah Arendt, Antisemitismo e identità ebraica,
Einaudi, pp. 232 € 421
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