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mercoledì 25 maggio 2022

Le famiglie (non) fanno bene agli affari

I Benetton, sfavillante famiglia di quattro fratelli venuti dal nulla che con le magliette hanno vestito il mondo, con la formula franchising hanno creato un mercato mondiale, con Oliviero Toscani imbastito un linguaggio, capace di accendere le fantasie di milioni e miliardi di ragazzi, si riducono, due di loro ancora in vita, compreso il vulcanico riccioluto Luciano, ma gestiti dal figlio e nipote Alessandro, a darsi un nome che riecheggia il numero dei morti a Genova provocati dalla loro aziende Autostrade. Le famiglie fanno bene agli affari? Sì e no. 
Non è detto, e non è frequente, che la seconda o terza generazione abbia il senso della impresa del fondatore. Accade, è accaduto che il fondatore debba riprendersi ogni attività confidata ai figli, come Caprotti di Esselunga, o Del Vecchio di Luxottica-Exilor. Lo stesso è avvenuto nelle famiglie americane, Ford per esempio. O francesi della siderurgia, dell’aeronautica, della grande distribuzione. O in Germania con i Krupp, i Thyssen, i Quandt della Bmw, i Porsche.
Si confonde il fondatore, una persona comunque d’ingegno, manuale, tecnico, finanziario, commerciale, politico anche, e una finestra comunque aperta, anzi spalancata, sul mondo com’è, ogni giorno di ogni anno, con i figli e nipoti. Che difficilmente hanno le stesse qualità – nella storia non se ne ricorda nessuno. Se non ne hanno le qualità, si dice allora, garantiscono comunque la proprietà, e con la proprietà la certezza della continuità, di una gestione comunque volenterosa. Ma non ci sono imprese sopravvissute al-i fondatore-i, se non dotate di un buon management, per forza di cose esterno.
Il management naturalmente non è neppure esso esente da errori e catastrofi – i generi Gardini e Carlo Sama hanno dissolto in pochi anni, seppure tra lampi e sorprese, l’impero costruito in una vita da Serafino Ferruzzi, una sorta di Carlo V delle granaglie (“sul mio impero non tramonta mai il sole”). La lista è lunga delle aziende di successo che non sono sopravvissute al fondatore. Quasi tutte quelle del “bianco”, le cucine e gli elettrodomestici da cucina per cui l’Italia fu imbattibile nei mercati negli anni 1950-1970: Borghi (Ignis), Merloni etc.. Il tessile e abbigliamento, dall’alta moda, che, certo, deve fare capo a uno stilista-artista, a una personalità unica, i tantissimi stilisti che muoiono con se stessi, alla moda pronta, Rossi, Marzotto, Rivetti, etc.. O le automobili, dei Lancia, Romeo, Innocenti, lo stesso Ferrari.
L’unico asset che la famiglia apporta alla vita delle imprese è, quando c’è, l’unità d’intenti. Nel capitale delle stesse: una delle forme di continuità aziendale, nel senso che il capitale resta unito. Questo a volte può essere di beneficio, le “scalate” speculative (dissolutive) restano difficili. Ma non sempre. Un capitale aperto può favorire l’insorgenza di nuove e migliori energie, e comunque una più ampia possibilità di finanziarsi – è più difficile che gli estranei mettano i loro soldi nell’azienda di “qualcuno”, in un’impresa padronale.
Si dice solitamente che la Fiat ha prosperato per oltre un secolo perché la famiglia Agnelli l’ha custodita. Questo è vero, nel senso che gli Agnelli e i Nasi, i discendenti di Edoardo e Caterina (Aniceta) Agnelli, i figli del fondatore, il senatore Giovanni, votano insieme – l’albero genealogico di una ventina d’anni fa, alla successione dell’Avvocato, registrava 75 membri viventi. Ma il gruppo ha prosperato con i grandi manager: con Valletta era il terzo o quarto grande fabbricante di automobili al mondo, dietro gli americani, con Ghidella era il numero uno in Europa, davanti a Volkswagen, e poi con Marchionne. Ha fatto bilanci fortunosi, e rischiato anche il fallimento con gli Agnelli al comando. Soffrendo Valletta, nel dopoguerra, e Ghidella, allontanato senza motivo.
Ma un motivo sempre c’è, quando si allontanano manager capaci: la gelosia. Le famiglie arrivano a temere i manager, se capaci. E qui allora hanno un ruolo infausto: lavorare per sé contro l’azienda – in definitiva anche contro di sé, e questo dice tutto.
Senza addentrarsi nella storia, basti un caso recente – marginale ma chiaro: quello della Juventus, la squadra di calcio, che gli Agnelli controllano. Ha prosperato con Boniperti, calciatore divenuto manager, con molte coppe e il Mondiale del 1982 finché l’Avvocato, ombroso, non l’ha prepensionato, e un periodo oscuro è seguito. Con Umberto alla guida, il club è stato lasciato a due manager, Giraudo e Moggi: altre coppe e il Mondiale del 2006. Finché i due, sospettati di scalare il club, che avevano portato in Borsa, sono stati cacciati con ignominia. Altro periodo oscuro. Poi Alberto Agnelli imbrocca Marotta direttore sportivo, e vince e stravince. Ingelosito, licenzia Marotta, dopodiché spese folli, debiti, oltre un miliardo in tre anni, e figuracce.

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