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sabato 8 ottobre 2022

Racconto semplice contro il potere, anche della tradizione

Un omaggio al cinema nel cinema, magari commosso, è il senso del film che più ha colpito i critici. E invece no, niente è cervellotico in Panahi. Il racconto è piano, alla sua maniera ormai canonica, di inquadrature schematiche, lineari, senza effetti, con attori che recitano il loro ruolo, non fingono, non bluffano, compreso il regista, che fa se stesso. Di una condizione esistenziale proibitiva, vecchia e nuova, povera e ricca, sotto l’apparenza ordinaria, nella remota montagna al confine con la Turchia come a Teheran. Un racconto semplice, avvincente, e terrificante: di stoltezza, e di violenza. Sotto la cerimoniosità del linguaggio, nelle tradizioni di cui nessuno più sa il senso come nei centri – che non si mostrano, si accennano – del potere “rivoluzionario”.

Panahi personalmente ne ha ampia materia. Lui stesso condannato in Iran già nel 2010 a sei anni di carcere per “attività di opposizione”, con divieto di scrivere e tanto meno di girare film per venti anni. Liberato su cauzione dopo due mesi, reimprigionato a luglio, finito di montare questo film apparentemente girato fuori Iran, con la sua regia via zoom, sulla base della vecchia condanna, per avere protestato contro l’arresto immotivato di due registi. Il film dentro il film è appunto quello che si fa in simili casi, si gira in un paese straniero, magari di frontiera. Che non è una furbata, ma una condizione esistenziale assurda, doversi difendere da un regime inetto tanto quanto violento.

Non si ragiona con gli ayatollah, è un regime pervasivo, non politico. E non si ragiona col popolino su cui gli ayatollah si poggiano. Anche della minoranza azera, al Nord al confine con la Turchia, alla quale lo stesso Panahi appartiene, gente semplice di montagna, cerimoniosa come tutti, e superstiziosa, crede agli orsi e non solo, e violenta.   

Al modo di Panahi, senza polemica o accuse, mostrando le cose, un racconto anche sugli inganni della tradizione, e della stessa religione. Il regista viene trascinato in una Stanza dei Giuramenti, dove non c’è bisogno di dire la verità, gli viene spiegato basta giurarla – la dissimulazione (taqyiia) è sempre onesta nell’islam. Un film con cui il regime di Teheran, non fosse tanto rinchiuso su se stesso, avrebbe sicuramente potuto vantare il premio Oscar 2022, bastava candidarlo.

Jaafar Panahi, Gli orsi non esistono

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