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sabato 8 ottobre 2022

Quando Scalfari avviò la fine del Monte dei Paschi

C’era, e c’è, la Dc, di sinistra, dietro la foglia di fico del presidente Mussari mandato da D’Alema, e l’ingenua telefonata del segretario diessino Fassino (“Abbiamo una banca”), a capo della disavventura senza fine del Monte dei Paschi. Avviata dietro le quinte da Giovanni Bazoli,  l’avvocato-banchiere creatore di Intesa - di cui il vescovo di Brescia, per il quale Bazoli inizialmente lavorava, diceva che “ha un pelo sullo stomaco alto così”.

Il 17 aprile 2005 Scalfari apriva per conto di Bazoli la questione, in un incongruo postscriptum a un articolo sulla crisi di governo chiesta dalla Dc di Follini, e da Fini, contro Berlusconi, “Una crisi degna dei racconti di Gogol” (l’articolo si può leggere online). Fingendo di prendere posizione a favore dell’opa dell’olandese Abn Amro su Antonveneta e dello spagnolo Santander su Bnl, nel nome del mercato, Scalfari apriva il fuoco contro il governatore della Banca d’Italia Fazio, reo di promuovere cordate nazionali per le due banche sotto tiro. “Se le manovre guidate dal governatore sboccassero in altrettante Opa più favorevoli agli azionisti delle banche contese, non ci sarebbero obiezioni di merito anche se non rientra nei compiti della Banca d' Italia di discriminare gli operatori europei non italiani”, scriveva. E aggiungeva: “Ma qui non si tratta di contro-Opa, bensì di cordate camuffate ma assolutamente evidenti”.

Scalfari meglio di ogni altro sapeva che senso dare al “mercato”, quello che lui voleva dire non è quello che ha detto – è anche legittimo far fallire le opa, e non necessariamente con un’altra opa più favorevole. Scalfari avviava la caccia a Fazio, vecchio “popolare”, avversario di Bazoli, pur esso Dc ma di sinistra: gli aveva consentito di creare Intesa, ma ne aveva bloccato l’acquisizione di Generali – col 4 per cento del gruppo assicurativo in capo a Banca d’Italia. Bazoli apertamente aveva criticato e criticava il ruolo che Fazio si assumeva come Banca d’Italia nell’assestamento bancario – tanto più dopo il passaggio alla “banca universale” (credito commerciale e a medio e lungo termine) decretato dall’America di Clinton un decennio prima.

Scalfari concludeva chiamando a raccolta le forze del futuro Pd: “Aggiungo e sottolineo, un’opposizione consapevole avrebbe dovuto far sentire energicamente la sua voce in difesa del mercato, delle sue regole, degli azionisti e soprattutto dei principi della libera concorrenza tra imprenditori europei. Il fatto che ciò non sia avvenuto con la dovuta energia suscita in noi stupefatta preoccupazione”. E partì la caccia, ferale, della “opposizione consapevole” a Antonveneta.    

Saltato Fazio, Abn Amro si compra subito Antonveneta. Pagando un ottimo prezzo agli azionisti della banca del Santo, 26,50 euro. Due anni dopo Abn Amro finisce in mano a Santander, Royal Bank of Scotland, e Fortis, un gruppo belga, e nello “spezzatino” che ne segue Antonveneta va al Santander. Che in poche settimane la rifila a Mps per nove miliardi, cifra monstre nel canone di valutazione europeo. Malgrado un passivo che a fine 2011 ammonterà, fatte infine le dovute valutazioni, a diciotto miliardi, quindici dei quali per “crediti vantati da terzi” – erano otto nel 2008. Mps dall’affaire Antonveneta in poi, dove molti compagnucci della parrocchietta si erano locupletati, nel Veneto, in Spagna e in Toscana, non si è saputo più gestire (la miscela politica dissolutrice è la stessa del partito Democratico, che nasceva in parallelo con Mps-Antonveneta).

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