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Smart working
S’incontrano trenta e quarantenni a spasso col cane non più soltanto
alle otto di mattina e alle sette di sera, da qualche tempo anche alle 13-14. Anche
da qualche anno. Sempre accigliati, anche per l’uso generazionale della barba,
necessariamente scura e cupa - parliamo di uomini, in prevalenza: portare il cane
a spasso per i suoi bisogni è bene una fatica, per quanto uno ci possa giocare
o dialogare. Ma come afflitti.
Lo stesso avviene per quelli, ma sono molti meno, che attorno alle 11-11,30
portano a spasso il bebé in carrozzina. Come distratti, perfino bruschi nelle
manovre. Non amorevoli, e anzi infastiditi dagli anziani che fanno le moine al
passaggio.
Questo si può capire, il divide generazionale è un fatto. Ma sono
irritati dall’incombenza canina oppure dal non far nulla?
Però, che tanti trenta e quarantenni non lavorino, a ripensarci, non è
normale. E loro stessi sembrano pensarlo e dirlo, quasi sempre attaccati al cellulare
– i più vanno con le cuffie, ora invisibili, quelli che danno l’impressione a
incrociarli di parlare da soli. È l’effetto covid, pare, lo smart working
o lavoro da remoto che sostituì la presenza in ufficio o in azienda, e da allora
è pratica, pare, comune, il lavoro a distanza, in audio e in video. Con risparmio, così si dice, per chi lavora e anche per le aziende e gli uffici, sul pendolarismo,
sul parcheggio, sui pasti fuori, sui consumi di elettricità, sulla carta, sul
riordino e le pulizie, etc.. O solo con la convenienza? Ma poi, si vede, soli vengono
i cattivi pensieri.
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