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lunedì 27 febbraio 2012

Le lucciole svanite nell’odio del mondo

Le lucciole di Pasolini non sono scomparse nella notte. “No”, spiega il filosofo dell’immagine, “le lucciole sono scomparse nell’accecante bagliore dei «feroci» riflettori” della contemporaneità. E non sono scomparse in realtà, sono il segno di un disagio. Di cui il filosofo conduce, con sicura pedagogia, a scoprire connotazioni sorprendenti. Le lucciole non erano ignote al Novecento. Didi-Hubermann ne scova la presenza in tanta letteratura francese, e fin nella letteratura nipponica, nel non tradotto (in italiano) “La tomba delle lucciole” di Akiyuki Nosaka, che le vede scendere dal cielo, “il fuoco che cade goccia a goccia” della bomba A, e nella chimica del Nobel Shimomuro, sopravvissuto a Nagasaki, nella bioluminescenza. La biochimica del “sistema lucciole”, che ci riserva una prima sorpresa: “Mentre in alcune specie animali la bioluminescenza serve ad attirare le prede o a difendersi dal predatore…, nelle lucciole si tratta anzitutto di una parata sessuale”. L’“articolo delle lucciole” di Pasolini sul “Corriere della sera” dell’1 febbraio 1975 s’intitola “Il vuoto del potere in Italia”, e tratta dell’Italia che vive nel fascismo, anzi peggio che nel fascismo, eccetera, in un crescendo d’indignazione che porta lo stesso poeta a interrogarsi su che demone lo ha invaso. Didi-Huberman pone allora il quesito: “Perché Pasolini sbaglia così disperatamente e radicalizza in questo modo la propria disperazione? Perché ha inventato per noi la scomparsa delle lucciole? Perché la sua luce, il suo fulgore di scrittore politico si sono così improvvisamente consumati, spenti, inariditi, annichiliti da sé?” E si risponde: non sono scomparse, distrutte, le lucciole, ma “qualcosa di essenziale nel desiderio di vedere – nel desiderio in generale, e dunque nelle speranze politiche – di Pasolini”. La ricerca il filosofo sottotitola “Una politica delle sopravvivenze”. Sull’indignazione, la voglia di apocalissi e non specificata palingenesi, che è sembrato soffocare alla fine il poeta, confusi disagi trovano qui luna esauriente spiegazione. Didi-Huberman cita Derrida, una sua critica di trent’anni fa “Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia”: “Ogni escatologia apocalittica si promette in nome della luce, del veggente e della visione, e di una luce della luce, di una luce più luminosa di tutte le luci che essa rende possibili”. Che non è possibile: “Non ci potrebbe essere verità dell’apocalisse che non sia verità della verità”, e anzi “verità della rivelazione piuttosto che verità rivelata”. Anche se ineliminabile, e non colposa: “È ineliminabile perché nessuno può esaurire le sur-determinazioni e le in-determinazioni degli stratagemmi apocalittici. E soprattutto perché il motivo o la motivazione etico-politica di questi stratagemmi non è mai riducibile a qualcosa di semplice”. Meno “assolutorio”, Didi-Huberman contrappone la “situazione oggettiva” di Walter Benjamin, al quale si deve il piccolo messianesimo poi sbocciato in apocalissi, personale e storica, negli anni 1933-1940, a quella di Pasolini a febbraio del 1975 – e successivamente di Agamben, cui dà il testimone del poeta. Un informato, approfondito, amorevole ritracciamento di Pasolini nei suoi gangli segreti - le lucciole, e lo stesso Pasolini, hanno più attenzione, e forse intelligenza, oltralpe che da noi, Didi-Huberman cita Bataille, Jean-Paul Curnier, il fotografo Denis Roche, l’antropologo Lemonnier. Il fatto è controverso, la scomparsa cioè delle lucciole. Didi-Huberman le vedeva ogni sera, in stagione, nel boschetto dei bambù di Villa Medici al Pincio a Roma, “nel cuore urbano del potere centralizzato”, negli anni dal 1984 al 1986. Ancora nei primi anni 1990 le ha riviste. Poi il boschetto fu tagliato, ma questa è un’altra storia, contemporanea e non. Ciò a cui Didi_Huberman ci introduce, nell’opera di Pasolini e nel Novecento, è la luce intermittente, che segna una sopravvivenza-persistenza: le parole-lucciole, il sogno-lucciola, il sapere-lucciola, il segnale nella notte. Un invito, si direbbe: il balenio, un sorriso. Didi-Huberman arriva a Pasolini partendo da Dante: le lucciole sono la sola luce che Dante vede all’Inferno, al canto XXVI. L’immagine del villano che la sera dal poggio guarda le lucciole girovagare nella vallata gli serve per dire delle fiammelle che vagano a luce alterna tra i “consiglieri fraudolenti”. A lungo però dimenticate, queste lucciole, lo stesso Botticelli ebbe difficoltà a riprodurle, nell’illustrazione della “Commedia”. Benjamin, che ne parla negli appunti sparsi pubblicati come “Appendice a «Sul concetto di storia»”, dice dell’immagine che balena che “s’appoggia (su) un verso di Dante”, ma non lo cita. In Pasolini Didi-Huberman ritrova le lucciole la prima volta in una lettera del poeta ventenne all’amico Franco Farolfi, in cui descrive una scampagnata notturna fra il 31 gennaio e l’1 febbraio 1941con altri amici, dapprima al casino, nella carne triste, poi in collina, dove una rivelazione avviene: “Una quantità immensa di lucciole”, in “boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli”, gli fa desiderare “comitive di giovani ventenni che ridono con le loro maschie voci innocenti”, incuranti del mondo intorno. “L’1 febbraio 1975, cioè giorno per giorno, o piuttosto notte per notte, trentaquattro anni dopo”, nota Didi-Huberman, le lucciole del poeta sono spente. La scomparsa delle lucciole è “la scomparsa delle sopravvivenze”, una sorta di fine della storia. Di più, delle “condizioni antropologiche della sopravvivenza”, personale questa, individuale, della speranza: Pasolini ha smarrito “in fine il gioco dialettico dello sguardo e dell’immaginazione”. Che non è gioco naturalmente, è la forza di vivere, la quale, smarrita, non lascia le cose come stanno ma apre una voragine, un’assenza. Sia pure per la “visione apocalittica” che il poeta coltivava. Che in lui non era gioco retorico.
Georges Didi-Huberman, Come le lucciole, Bollati Boringhieri, pp. 100 € 16

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