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lunedì 14 settembre 2015

Il silenzio della decadenza

È un quarto di secolo che Rovatti ha deposto questo esile invito al silenzio, ma potrebbe essere un secolo. Un invito più ritentivo che espresso peraltro, Rovatti procede cercando le parole. Perché le parole, questo il senso dell’invito, sono un terreno infido da praticare. Magari condivisibile, come tutto il pensiero debole quando è debole. Umile, retrattile – quando non tira randellate, e meglio ancora se scandito in brevi saggi su “aut-aut” e non sistematizzato. Ma come una buona zuppa, non di più.
Molto è Heidegger vs. Husserl. Inconclusivo, naturalmente. E Rovatti? “Il silenzio che cerco di introdurre nelle parole (a partire magari dalla semplice attenzione alle pause, agli stacchi, perfino a dove inserire una virgola, insomma al carattere “scenico” del testo) mira soprattutto a rendere visibili i vuoti”. Dopodiché, se si scrivesse renderevisibiliivuoti senza vuoti? Il “carattere scenico” del testo non era poesia della tarda decadenza, romana?   Pier Aldo Rovatti, L’esercizio del silenzio

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