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lunedì 27 febbraio 2017

Oscar trumpiani

Si comincia a capire il “fenomeno Trump” (perché l’America lo ha votato), rivedendo la cerimonia degli Oscar. L’autocelebrazione dei belli-e-buoni, della correttezza, della nuova politica. Che a Hollywood la notte degli Oscar doveva essere tre cose – tre cose da programma: premiare gli afroamericani (“Moonlight”, “Barriere”), dirci dei “relitti umani” (“Moonlight”, “Manchester by the Sea”, “Il cliente”, “Barriere”), e dire male di Trump. Che però potrebbe essersene rallegrato.
Tanta pompa per film tanto malinconici e anzi crudeli non può che rivoltare. È stato premiato anche “La La Land”, ma era ovvio. I premi politici invece, se si possono considerare in linea con la crisi che stiamo vivendo da dieci anni, colpiscono per la loro assurdità: la crisi è interiorizzata, non ci sono colpevoli, siamo vittime ma non si sa di che. Tutti grigi, tutti condannati. Anzi, i colpevoli siamo noi, vittime di noi stessi.
Uno non può che ribellarsi, per istinto di sopravvivenza. E se tutto questo è celebrato, tra papillons,  decolletés e champagne, allora vaffa, è l’ora dei Grillo-Trump. Manchester-by-the-sea, la cittadina a Cape Ann, nel ricco Massachusetts, dove il film è ambientato, ha votato compatta per Trump. Così come la Paterson di “Paterson”, film di ambientazione analoga, tra personaggi minimi e relitti umani – ma di altro spessore, non ha avuto bisogno degli Oscar per promuoversi.   
“Non rispondere alle provocazioni” era la parola d’ordine del Sessantotto - del movimento, dei cortei, delle manifestazioni: si dava per scontato che sotto e dietro ci fossero dei malintenzionati: Digos, fascisti, cani sciolti. Fino a che, presto, la “provocazione” non venne dall’interno – dalla purezza, la correttezza, la civiltà etc.: il disfacimento.

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