Cerca nel blog

domenica 16 maggio 2021

Pavese prigioniero di se stesso

La riflessione diaristica meno censurata e più vivace di Pavese, autore diaristico per eccellenza, tutto ripiegato su se stesso, anche più ricca del “Mestiere di vivere”. La solitudine, fino al suicidio, è tema costante. O il senso di prigionia anche senza pareti – il tema del racconto del confino, “Il carcere”. E la lingua poetica. Col “piemontesismo” – senza mai alcun riferimento a Gozzano o altri piemontesi “tipici” (se non “il buon Salgari” appaiato a Melville quale scrittore di avventure). L’uso del dialetto, comunque, non è realismo, è letteratura: “Io quando torinesizzo sono più letterato che mai”. Il suo lettore può testimoniarlo, dalla tesi su Walt Whitman in poi, a 21 anni, “Interpretazione della poesia di Walt Whitman”, e anche nelle poesie e i racconti adolescenziali. Senza contare, concorda con Libero Novara, “Bero” o “Berin”, che il Piemonte non ha canzonette, canta stornelli romaneschi o fiorentini.
L’altro tema è l’amore. Inafferrabile. Della donna inafferrabile – perché idealizzata, compagna “non strumento occasionale” (e “non  ancora sposa”), non in senso politico. Nelle personificazioni note, E., collega d’insegnamento, “la signorina” della disgrazia politica (Tina Pizzardo), Fernanda Pivano, se qualcosa ci fu, Bianca Garufi, Constance e Doris Dowling, e altre frequentazioni ancora meno riuscite – un’inettitudine che lo accomuna a Nietzsche, pure autore all’apparenza a lui alieno, benché letto e riletto. Una inettitudine che affiora anche nelle lettere più professionali, una sorta di paranoia. Indotta - “Il mestiere di vivere” è già chiaro, benché censurato - dal rapporto incredibilmente ingeneroso e anzi ostile, a leggere lui, con Tina Pizzardo, per “salvare” la quale era andato in carcere e al confino, nel mentre che lei si “accasava” altrove – in prigione, scrive e ripete alla sorella Maria, con la quale lamenta ripetutamente il silenzio della “signorina”, solo “per la leggerezza di qualche conoscente”.
Non c’è ponte, non c’è dialogo, fuori dalle amicizie di gioventù. Legittima in una corrispondenza “il sacrosanto misoginismo di ogni piemontese”. Nel “Mestiere di vivere” si dice anche: “Misogino eri e misogino resti”. Ma non lo, poiché privilegia la compagnia femminile, amorosa e amichevole. Femminile anzi lui stesso, così se lo dice nel “Mestiere di vivere”: “Sei una donna, e come donna sei caparbio”. Uno dei pochi autori del Novecento che con la parte femminile convivono, e non per parità di genere o altri proponimenti – non più tormentosi che con la parte maschile. Misantropo piuttosto - la creazione propriamente amorosa, la prole, “è la fine di ogni autonomia da parte del creatore”. Senza una causa visibile, come prigioniero di se stesso, anche nelle effusioni, che non si risparmia. Per un fondo di disperazione che non sembra peraltro coltivato, anche se non se ne vedono le cause, non sono apparenti o storiche. E che anzi, il più spesso, gli dà fastidio, se ne sente limitato.
Considerazioni derisorie sono ricorrenti anche in dialogo, nella corrispondenza con gli amici, oltre che nel diario. “Parliamo delle donne con una volgarità impressionante, e questo è il loro bello”. Anche nei momenti in cui è sorridente, ironico, comico, beffardo – che ricorrono paradossalmente soprattutto nelle lettere dal confino da Brancaleone (dove invece è ricordato “triste, solitario y final”, ma forse è ricostruito, in testimonianze rare e tarde, col dover essere del dopoguerra). E quando è contento, come appunto a Brancaleone, combattivo, reattivo, anche nella censurata questione della “signorina” per la quale si ritiene condannato e che di lui non ne vuol sapere, si autoanalizza vivacemente - “questa allegrezza che mi schiarisce la pagina”, scrive ad Augusto Monti, “il professore”, “lei avrà già capito che nasce dall’enormità dell’afflizione”.
Ovunque l’infelicità. E il fastidio della politica. Di quella professionale, esibita, e delle ortodossie di partito. Il “gruppo dell’«Unità»” dice a Onofri “squalificato e malvisto” - il gruppo “torinese” dell’“Unità”. Tiene testa a Mario Alicata, il depositario del Pci per l’ortodossia letteraria, che lo vuole acculare al realismo – anche se di Verga tesse un grande elogio con un corrispondente americano, raccomandandone la traduzione. Ma la politica in genere lo infastidisce. In lettere fluviali a Pinelli, non ancora ventenne ha inventato un “Carlo Emmenthal”, “contaminazione” di “Carlo” Marx e Immanuel Kant, o delle astrusità. Nel 1930 sollecita da Prezzolini a New York, “a nome di Sua Eccellenza Arturo Farinelli”, informazioni su un incarico alla Columbia University. “Mai occupato di cose politiche”, pretende nel 1935, con la prigione e il confino. Alla rivista “Cultura”, si difende da Regina Coeli, ha invitato a collaborare “parecchi camerati”. Interessato a tutto, insisterà, “eccetto, ab aeterno, la letteratura politica”.  
Molte naturalmente le curiosità. Calvino è “scoiattolo della penna”. “Paesi tuoi”, allora reputato il suo racconto migliore, spiega stimolato dal “Postino” di Cain. Il secondo libro di Moravia (“Le ambizioni sbagliate”) difende dal giudizio (“brutto”) di Luisa Monti, figlia di Augusto, moglie dell’amico di sempre Mario Sturani, in questi termini: “È un libro scritto con i piedi, sbagliato nella psicologia, ambientato antipaticissimamente, ma spiritoso, tragico, avvincente, fenomenale: un romazo d’appendice di gran razza. È meglio del cinema”. Omero sempre, ma “il mare colore del vino” no, d’accordo con Rita Calzecchi Onesti, traduttrice che felicita molto: “Sono d’accordo per il mare cupo. Via il vino”.
Lo “stile epistolare”, scriverà Domenico Starnone delle sue letture pavesiane, introducendo la riedizione de “Il mestiere di vivere” Einaudi, trascrizione 1990, “mi piacque molto: pensai che avrebbe dovuto scrivere a quel modo anche quando vestiva l’abito del narratore”. Ma è la pubblicazione, curiosamente, che nessuno riedita, nella fiera post-copyright. 

Scrive anche in inglese, lettere anche lunghe, benché bocciato al concorso per insegnarlo.   

Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, Einaudi, 2 voll. pp. 817

Nessun commento: