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lunedì 24 giugno 2013

L’antropologia della Calabria su due piedi

Un viaggio a casa, l’idea è affascinante. La casa di Santoro è la Calabria, dove è vissuto nella prima metà dei suoi 36 anni. Che decide di farsi a piedi, per una trentina di giorni nell’estate di due anni fa. È già molto, Pasolini se la fece in un giorno, 800 km. di costa, scrivendone per il settimanale “Tempo”. Santoro ne scrive ogni giorno per il “Quotidiano di Calabria”.
È difficile farsi la Calabria a piedi, si finisce per seguire le statali, ma Santoro ci riesce. Anche se non in solitario. Assistito dallo smartphone, il blog che lui stesso cura, vecchi compagni di scuola, e specialisti prestigiosi. Alcuni in persona: un giorno Vito Teti, un altro Paolo Jedlowski, o Alessandro Jedlowski, sociologi e antropologi, Vittorio Cappelli, storico, Leonardo Seeber, geologo-camminatore della Columbia. Altri coi libri: Federico Varese di Oxford, Kim Ragusa di New York, figlia di un calabrese e un’afroamericana, i cui genitori non volevano il genero, considerandolo negro, e tanti altri.
La preziosa collana di Valerio Cappelli, rilegata e copertinata, che accoglie il viaggio, ci aveva abituati ad altri messaggi e messe a fuoco, di occhi esterni, più o meno simpatetici, sempre curiosi. Questo nasce filiale. Per il padre le prime parole, che ha appena perduto la memoria, simbolicamente?, a seguito di un’operazione “di routine” (a Brescia, però). Per la madre le ultime, cui “qualcuno vorrebbe impedire di raccontare la sua regione come ha sempre fatto”. Ma di suo Santoro è come se dicesse: “Vediamo un po’”, scettico.
Non è in realtà un viaggio, malgrado i trenta giorni a piedi. O è spettrale: il viaggiatore non incontra nulla e, in fondo, nessuno – giusto gli amici noti. E non è letteratura: “Non parlerò di tarantelle, rinogaetanismi, briganti, soppressate”, premette. Il reportage è di se stesso, dell’amore parentale da cui è impossibile staccarsi, mentre dalla Calabria peninsulare sì – le radici sono familiari. La Calabria, in particolare, non c’è, se non a specchio di qualcos’altro. Raro peraltro l’uso degli strumenti linguistici etnici che s’intuiscono del padre e della madre come di ogni calabrese: l’umoralità per esempio,  più addictive del peperoncino, sotto le specie del sarcasmo. La ricerca del silidrillo, la lamentazione, la ‘ndrangheta multinazionale più grande e più efficiente d’Italia, pagine d’antologia, si vogliono isolate. O è negativa: delle politiche pionieristiche dell’immigrazione, a Badolato e Riace, dell’empatia di Wim Wenders per questa voglia di “continuare a esistere” di borghi abbandonati - Wenders lo fa per i soldi della Regione, gli immigrati ci stanno per scomparire meglio.
Tom Joad-Henry Fonda di “Furore”, il forte film di John Ford, è lusinghiero, per dire del bracciante calabrese. Ma di solito Santoro non è indulgente. Il suo mondo è un altro - sono altri. Il viaggio fa a imitazione di Wu Ming 2, che si è fatto a piedi da Bologna, piazza Maggiore, a Firenze, piazza della Signoria. Arriva alle gole del Raganello partendo da san Cristobal sopra il Chiapas, all’entrata della Selva Lacandona. Alle periferie che sono divenuti i paesi in Calabria guarda da Tor Pignattara a Roma, dove abita contento. Ritrova Rocco Palamara sulle tracce di “Africo”, il libro di Corrado Stajano del 1979, “un piccolo classico dell’inchiesta sociale”. L’ironia ritrova nella sua Cosenza perché ce l’ha trovata Piovene nel “Viaggio in Italia”, 1957.
La prospettiva a ritroso non è sbagliata, forse: la Calabria sarà pure questa, che, a furia di espellere (di espellersi), è rimasta sola con qualche santo, ma con pochi parroci, e indolenti, e con i politici dell’ultimo notabilato, quello della Dc popolare, paffutelli, che si carezzano le manine tonde, segno della cessata fatica. O migrare non è più una specialità. Si può dire andare e venire, questi verbi anodini rispecchiano meglio il fatto. Ma allora c’è poco da dire.
Le buone intenzioni
Di Russo, meridionalista emerito del “Corriere della sera”, il libro è una raccolta di vecchi articoli. Bene intenzionati – ma il meridionalismo è sempre bene intenzionato, non si può dire, anche quello selvaggio, vuole bene ai meridionali, è la sua colpa. All’ombra dei padri nobili dimenticati: Fortunato, Salvemini, Dorso, Compagna, Rossi Doria. Con le novità dell’epoca, le “macchie di leopardo”, che Russo non manca di cogliere. Effetto di investimenti riusciti – sì, ci sono investimenti riusciti al Sud. O di buona amministrazione.
Spiace tornare all’antico, ma non si può non apprezzare. Ricordando com’era il cosentino negli anni 1950, una regione grande come l’Umbria dove, fuori dai pini della Sila, si girava per un deserto, anche in senso proprio (il marchesato, l’Alto Jonio), e ora sembra la Toscana. A opera di Giacomo Mancini – e di tanti altri, ovvio, di Costantino Belluscio quarant’anni fa a Altomonte per esempio, o di Francesco Principe a Rende. Con un’università a Cosenza-Rende che in pochi anni ha acquisito status internazionale - e naturalmente oggi si vorrebbe mafiosa.
Santoro sa di Mancini, ma come uomo di potere, senza visione, senza capacità. È difficile, certo, vedere la gente che sa lavorare, che c’è – non tutta evidentemente arberëshe. Ma è come se mancasse la voglia. L’orizzonte è fisso alla disappetenza – degrado, mafia, corruzione.
L’odio-di-sé meridionale
L’odio-di-sé, benché rispettabile autocoscienza, presenta al Sud varie distorsioni – non è una novità in questo sito. La più comune è delle persone sensibili al tema della dipendenza ma cieche a quella di casa. Più attiva in Calabria, dove la dipendenza si sniffa ovunque, per la “natura”, ribellistica, anarcoide, di chi “sa” alla Pasolini, sapeva già prima del terzomondismo, molto prima degli studi di Arrighi, di Spivak, di Butler. Ma inerte nel proprio caso, anzi dirompente, disfattista: sempre e solo resta il mondo dei vinti.
L’odio-di-sé meridionale è una forma mentis, indelebile alle migliori intenzioni. Di esso è parte il lamento, di cui si può ridere con Santoro – anche se in realtà è uno scongiuro. Ma può essere per questo irrealistico, e quindi indisponente. Vito Teti si sorprende qui che, nel 150mo dell’unità, chi denuncia l’unificazione piemontese ignori il Risorgimento meridionale. Perché, c’è qualcuno che lo insegni? A Cavallerizzo, un paese ricostruito a tempo di record dopo una frana rovinosa, Santoro trova tutto da condannare. Non avendone sentito parlare, uno legge con interesse. Ma a fronte non trova un singolo atto di corruttela, giusto una pronuncia del Tar dl Lazio, non il più fededegno, che decreta “illogica” – non una colpa, i giudici sanno il senso delle parole - “la deroga alle procedure” di rito. Santoro, che è stato all’Aquila, dove le procedure impediscono da quattro anni alle miriadi di sfollati l’uso della minima suppellettile di casa, dovrebbe saperne il senso - Cavallerizzo, frazione di Cerzeto, non ha più di una quarantina di famiglie. E Cosangeles - per i tardigradi: Cosenza-Los Angeles, il consumo del territorio? Il consumo del territorio in Calabria è minore che altrove, e al novanta per cento non è mafia né speculazione, è il bisogno represso nei secoli e l’avidità delle banche che se ne approfittano. Per cui si può solo costruire la struttura in cemento armato, e chiudere alla meglio un piano coi mattoni forati e un po’ d’intonaco, per poi passare il resto della vita a sudare per il mutuo, e più la notte con gli incubi. Per figli e nipoti che non hanno mai avuto nessuna idea di abitare il “palazzo”.
Il tutto è inzuppato al solito di ‘ndrangheta, ubiqua, onnipotente: abusivismo, fusti tossici, centri commerciali, saloni di automobili, le spiagge, le pizzerie. Dove c’è. Ma anche dove non c’è. Paventando il turismo di massa, che in Calabria si distingue per l’assenza, se non per una o due settimane a Ferragosto. L’eroe è Uccialì, preso in ostaggio da bambino sulla costa crotonese, e cresciuto ammiraglio a Istanbul di feroci scorrerie turche. È così che la colpa si accumula in Calabria anche senza colpe.
La sfida con se stesso
Dalla “sfida con me stesso” Santoro non esce pacificato. Questo viaggio estivo è cupo – in effetti non c’è mai la luce, che in Calabria s’impone, mite o imperiosa. Dove solo emerge una “borghesia mafiosa”. E forse nemmeno quella - la borghesia è mafiosa, ma in Calabria c’è una borghesia? È rimasto “spaesato”, dice, cosa che probabilmente non si potrebbe dire di suo padre: “Nel mio piccolo, mi sono chiesto spesso che differenza ci fosse tra raccontare la Calabria ai non calabresi e farlo per quelli che in questa terra ci sono nati, ci vivono e sono continuamente oggetto di bombardamenti retorici, pregiudizi e stereotipi”. Ma non sfugge alle reti della falsa Italia. Delle false realtà che l’Italia impone.
Da questo punto di vista un viaggio a Milano sarebbe stato più proficuo alla collana – Milano resta ancora da scoprire. Dove c’è la borghesia, per esempio. Dove si fa la Calabria, come tutto il resto. Milano sarebbe stato il viaggio “vero”, la scoperta di Milano, la vera riserva di oggi, sociologica, politica e anche etnologica: c’era la Calabria dei Borboni, c’è quella di Milano. Santoro lo sa, se la ‘ndrangheta è grande multinazionale: ma come, perché, con quali fidi, quali bonifici? La ‘ndrangheta, se ha una funzione (un mercato), è di portare la droga a Milano indisturbata – e a Roma, certo, già che ci si trova.
Santoro non ne è succube, sa di che sta parlando, ma non si sottrae al “discorso su” che purtroppo sostanzia e esaurisce la Calabria, un mondo senza storia – se si eccettua il feudo, che la distingue per non esserci stato, e oggi la ‘ndrangheta.  Alla gabbia dell’opinione dominante, che non si fa in Calabria. Rocco Palamara va ricordato come Santoro lo ricorda, per essersi opposto ai soprusi in Africo Nuovo, ricostruita dopo l’alluvione, con la pistola, sparando a chi gli sparava, ma resta nella storia come la fonte di Stajano per “Africo”. Che condusse Bobbio e il “Corriere della sera” a chiedere il filo spinato verso certe regioni. Dopo aver spaventato un po’ lo stesso Stajano. Mentre la pietas di Stajano è totale, e anzi l’estrema indulgenza, verso i delitti veri, continuati, della sua Milano, “La città degli untori”, malversazioni, scempi.
Non si sottrae il viaggiatore all’antropologia a volo d’uccello – la Calabria ne è l’ultima vittima, perfino la Sardegna se n’è liberata. Senza averne alcun lume sulle differenze, queste “essenze” antropologiche. E all’amoralismo che denuncia – ne sarà sorpreso, anche lui ha buone intenzioni, ma così è. Amoralismo in Calabria? Dove tutti temono l’inferno – Banfield che l’ha coniato è della stirpe dei viaggiatori, un Lear meno scherzoso, un Robert Byron meno perspicace.
Questo viaggio è generazionale? È possibile, anche qui abbiamo Berlusconi a ogni piega (voleva comprarsi pure Badolato…), la Tav, e la birra con l’aperitivo.
Giovanni Russo, Nella terra estrema. Reportage sulla Calabria, Rubbettino, pp. 140, € 14
Giuliano Santoro, Su due piedi. Camminando per un mese attraverso la Calabria, Rubbettino, pp. 170 € 7,90

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