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domenica 23 giugno 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (174)

Giuseppe Leuzzi

Cade nel vuoto lo scandalo del latte avariato in Friuli. A opera degli stessi contestatori delle quote europee del latte. I cui sforamenti costano all’Italia quattro miliardi di multa. Che paghiamo tutti quanti noi, non loro.
Una truffa anche miserabile, poiché avvelenava i bambini. Ma non interessa a nessuno. Nessun cronista, nessun fondista, nessun commentatore, nessun giornale. Perché non è successa a Napoli?

Non ci sono antropologi a Milano, a Torino, a Bologna, a Roma. Ce ne sono invece, in cattedra, a Palermo, a Cosenza, ovunque in Sardegna. Pure Napoli privilegia la lettura “antropologica” dei suoi geni.

Il Tg 2 fa vedere un ragazzo che da Corigliano Calabro è a Dsseldof per lavoro. “Lavoro in una società di pulizie”, dice, “in attesa di un’occasione”. Guadagnerà 400 euro, al mese, i famosi mini-job del miracolo tedesco, che “occupano” sette milioni e mezzo di persone? La giornalista non lo chiede, ma il ragazzo sembra incerto.
La cugina che l’ha preceduto a Düsseldorf dice: “Opero nello stesso settore”. In attesa dell’occasione? Ma lei è in età.
I due cugini a Corigliano mai avrebbero lavorato in una società di pulizie. Benché potessero risparmiare sull’affitto. Siamo soprattutto sperduti, provinciali.

Verga fascista? Ma non era morto prima? Lo dice Quirino Principe sul “Sole 24 Ore” di domenica scorsa. Dopo aver lamentato la scarsa attenzione che si presta a Dante, per colpa del ’68. La disattenzione – con gli ascolti di Benigni, le fole di Sermonti? – è “frutto”, dice Principe, “da un lato dell’imbecillità del 1968 e seguenti, quando giovani analfabeti sostennero essere Dante un reazionario da sostituire con il proletario Verga (ignorando che Dante fu un ribelle irriducibile e Verga un sostenitore del fascismo in Sicilia”.
È vero che Verga fu antifascista, nel senso che oppose i Fasci siciliani, il socialismo, ma questa è un’altra storia. Più che altro è vero che la Sicilia resta remota, e Verga.

Breve storia segnaletica della Sicilia
I siciliani sono francesi. Sono stati arabi prima, poi francesi.
Quando erano punici e greci, erano in realtà siculi di lingua punica e greca.
Poi gli spagnoli sono venuti, ma non si sono mischiati.
Visi s’incontrano sbalzati dalle tappezzerie di Bayeux. Intagliati nell’alabastro, le code degli occhi leggermente all’insù, visi ovali, ricciolini, minuti, occhi chiari. È impressionante quanti se ne incontrino.  I nomi francesi sono in maggioranza, i nomi anagrafici – i luoghi sono sempre greci e arabi.
I normanni, seminomadi, curavano poco il territorio, molto il clan, il gruppo familiare. Gli angioini il gusto della cultura, che è anch’esso molto siciliano – gli angioini influirono sulla Sicilia ben oltre i pochi anni di dominio diretto, fino a Eleonora d’Angiò e oltre.
Quando la Sicilia avrà riavuto l’onore e creerà un vero servizio anagrafico, come nelle public libraries Usa, le ascendenze francesi saranno incontestabilmente acclarate.
Ammesso che lo vogliano, perché i siciliani amano nascondersi. In una favola ripresa in “Come la penso”, Andrea Camilleri ricorda la storia di Tespi, il primo attore - hypokrites, colui che dà le risposte - vittima della ragione di Stato. La quale poi impone a chi vuole apparire diverso la maschera e i coturni. Fra le tante maschere di hypokrites i cataloghi ne registrano una di “Siciliano”.

Mafia
Leonardo Vitale aveva raccontato nel 1973 che la mafia nel 1973 voleva eliminare Mauro De Mauro, un anno prima della sua sparizione, e Bruno Contrada, vent’anni prima della sua liquidazione legale. Di che far dubitare che i motivi addotti per la brutta fine dei due, l’uno per aver pestato i piedi all’Eni, il secondo per complicità mafiose, non sia stata altro che una “traggedia” montata dai mafiosi e i loro consigliori e sodali – un depistaggio.
La storia di Leonardo Vitale, di cui abbiamo raccontato la vicenda umana in “Fuori l’Italia dal Sud”, è spiegata in esteso da Salvatore Parlagreco in “L’uomo di vetro”, l’unico libro di mafia introvabile. Fu  il primo pentito di mafia, e quello che ha denunciato per primo il ruolo di Riina e di Ciancimino. Quando fece il nome di Riina i giudici lo mandarono al manicomio – ci mandarono Vitale, non Riina.
“Anche i giudici gli volevano bene”, commenta Parlagreco, “per questo lo facevano passare per pazzo”. Molto siciliano, romanzesco, non fosse che non gli credevano, mostravano di non credergli. “Certo, si trattava di uno psicopatico”, dirà Falcone a Marcelle Padovani, “ma era stato prodigo di tante affermazioni vere che avrebbero meritato ben altra considerazione”. Tutto quello che, undici anni dopo, Buscetta dirà a Falcone, nel 1984, era stato anticipato da Vitale. Il suo giudice, Domenico Signorino, accusato nel 1992 dal pentito Mutolo, altro bene informato, di collusione con la mafia, si suiciderà.
Vitale si era pentito nel vero senso della parola, da solo, senza spinte, senza premi. Disse anche che si volevano morti il giudice Terranova e il capitano dei carabinieri Russo. Che saranno uccisi.
Fra i delitti di Vitale c’era il rapimento dell’ingegner Luciano Cassina. Una ragazza aveva annotato la targa dei rapitori (omertà?), quella della Lancia Fulvia del futuro pentito. Ma questo non bastò a incolpare Vitale, che si fece pochi giorni di cela, confortato dai pizzini che gli spiegavano cosa dire.

Dice Andrea Camilleri ai giudici, invitato a un convegno del Csm nel 2007: “Mi ha sempre disgustato vedere i giudici spingere con l’inganno e le false speranze di favori o del perdono il criminale a confessare la sua azione, e adoperare in ciò la frode e l’impudenza. È una giustizia perfida, non meno ferita da se stesa che da altri”. Senza reazione del consesso dei giudici.

Lo Stato è mafia se lo dice Massimo Ciancimino? Anche un carabiniere pluricondannato, il colonnello Riccio, è vero.

leuzzi@antiit.eu

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