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martedì 6 dicembre 2016

La Macchinazione di Heidegger

Negli anni della guerra vittoriosa, una serie triste di riflessioni sulla “macchinazione illimitata”. È d’uso leggere i taccuini di Heidegger, i “quaderni neri”, nella politica del suo tempo, come un diario segreto, e questa presa di distanza colpisce: “La politica non ha più nulla a che vedere con la πόλις, tanto meno con la moralità e meno ancora con il «diventare un popolo». Essa, nell’epoca della completa sdivinizzazione, è la sola adeguata forma fondamentale di possente riunione di tutti gli strumenti di potere della violenza”. Subito dopo aver annotato che “combattenti – sono, da una parte, coloro che hanno sempre bisogno di un avversario e che, nel caso che questo manchi, se lo inventano e lo spacciano a se stessi e ad altri come tale; senza un avversario essi si paralizzano nella confusione….”. Oppure, “d’altra parte, essi sono quelli che stanno solo in ciò per cui lottano” e se hanno avversari “li rendono dipendenti e cioè a loro volta privi di obiettivi”. L’argomentazione caratteristica: niente e nessuno si salva.
Per il resto un linguaggio più elusivo del solito – di cui Alessandra Iadicicco consolante sembra possedere la chiave, nella nota introduttiva sui criteri della traduzione, ma il lettore, anche benevolente, fatica a non smarrirsi. In queste annotazioni occasionali più che nelle lezioni, nei saggi, nelle monografie.  Anche perché i “Quaderni” sono stati “venduti” male: non sono note di diario, personali, occasionali, ma testi strutturati, con rimandi, interni ed esterni al testo - con indici tematici compilati da Heidegger stesso. Ma preciso, ripetuto ogni paio di pagine, insistente, nell’elusività: l’attesa dell’Essere, l’ineffabile – “il tacere conquista lEssere”. Eversivo, perfino, in omaggio all’Essere: “La guerra è il primo esempio, da manuale, della macchinazione incondizionata e dei suoi allestimenti e ammaestramenti”. Ma patetico, e quasi ridicolo. “L’ordine incondizionato della potenza illimitata nella forma dell’allestimento che tutto afferra di ogni possibilità di potenziamento della potenza è già in sé il definitivo disturbo in ciò che è senza scampo”: questo del quaderno XII, p. 64, e analoghi editti sconcertano, pur facendo la tara della traduzione necessariamente affrettata. Irritato è Heidegger da solo con se stesso perché non riconosciuto. Aggrappato a Hölderlin, il poeta che avrebbe dovuto essere – uno svevo anche lui (svevo e non alemanno, qui c’è il rifiuto dell’alemannità).  
La polemica è costante con Nietzsche, ultimo metafisico, ogni poche pagine: “Nietzsche è la fondazione dell’ultima epoca della modernità: noi la chiamiamo l’epoca della totale mancanza di senso” (p. 119). Da ultimo sulla sua presunta apertura ai presocratici: “La favola che Nietzsche avrebbe riscoperto la «filosofia pre-platonica » verrà ora alla luce nella sua favolosità”, dopo il suo “Nietzsche”, di Heidegger – con l’annotazione a margine: “Nietzsche è l’ultimo pensatore che si è sacrificato per il «platonismo»”. In tono minore anche con Jünger – l’unico scrittore suo contemporaneo che legge, forse, seppure per criticarlo. Contro l’utilitarismo, o pragmatismo. Al quale ascrive Descartes, che nella dimostrazione del “Dio dell’esistenza”, attenendosi al “suo nuovo principio della clara et distincta perceptio, la fede in Dio lega a “qualcosa di necessario e utile” – e così Pascal: “Pascal non è in alcun modo una figura che si contrappone a Descartes, bensì e solo il suo completamento esplicito”. Molte le pagine contro lo storicismo, la storiografia in genere. E contro la “filosofia tedesca”. Che infine dice stizzito “francese”, cioè “propagandisticamente «nazionalistica»”, mentre “abbandona tutto ciò che è tedesco, la meditazione e il rischio dell’essenziale”. Da Herder a Hegel, Kant unico escluso, e l’idealismo in genere. Una nemesi estesa alla linguistica: “Non può essere certo un caso se entrambi i pensatori che compiono la metafisica occidentale – Hegel e Nietzsche – decadono nella più superficiale concezione del linguaggio e nella più vuota interpretazione”. Contro la riduzione, naturalmente, che la metafisica e la tecnica (l’americanismo) fanno dell’Essere all’ente, all’ananke, si direbbe, e al “tempo libero”. Con dispiego di trombe e tamburi – l’opinione pubblica.
Anti-ebraico sempre: per riferimenti minimi, occasionali, ma la questione dell’ebraismo emerge costante. Anche se la esclude dagli indici tematici - o di più per questo. Ma senza antisemitismo: Heidegger è vivamente contro il razzismo biologico. Altrettanto vivamente è per la differenza basica culturale. Dirla storica o psicologica no, lo offenderebbe: storia – storiografia – e psicologia mette anch’esse con costanza all’indice, e anche cultura, ma insomma qualcosa gli ebrei sono, non gli sono indifferenti. L’ebraismo è l’alterità totale – ha perfino “l’ebreo «Freud»", come se il Doktor viennese fosse un simulacro. Una “razza”, seppure tra virgolette, soggetto oppure vittima della Macchinazione, non a caso: Heidegger la esclude dalla comprensione del proprio limite.
Niente di invasivo o militante, anzi l’ebreo rischia poco nell’incupimento generale. “L’uomo occidentale” è senza più luogo né status: “La desertificazione entro le sfere della «formazione» e dell’«impresa culturale» è più avanzata che nel campo della più rozza preoccupazione per i bisogni vitali”. È un Heidegger incattivito, in questi quaderni degli anni della vittoria. Nell’ultimo, dell’attacco orgoglioso alla grande Russia, ha perfino un elenco di punti deboli della guerra vittoriosa (pp.338-9). Si legge in questi anni di entusiasmo isolato, non riconosciuto. Al centro del quaderno XIV (p. 255) si compiange senza ritegno: “Lentamente, riesce tuttavia ancora di far scomparire il nome «Heidegger» dalla pubblicità, e riescono i tentativi di avvolgere per bene nell’oblio ciò che reca quel nome come suo autore. È anche a malapena possibile sapere, entro un certo tempo, quand’è che sia tempo. Forse nell’anno 2327?” Che non è negativo come sembra, è dirsi la propria la filosofia immortale. “Con la nostalgia ineliminabile del divino – dell’Essere – “contro l’illimitato predominio dell’ente nella sua Macchinazione”.
Con qualche sorpresa politica. “La guerra è orribile” apre il 1940. Un’articolata, coerente ma non ostile, “Lettera sul comunismo è il § 128 del quaderno XIII. Seguita da un incongruo parallelo Hölderlin (l’amato)-Lenin – non c’è Hitler, per inciso, c’è molto Lenin. C’è anche un’autocritica del 1933 e il rettorato (p.233): “Negli anni della possibile decisione (1933) si agì con orrore e si stette in disparte e si sobillò; dopo un breve periodo si venne usati, ci si vide confermati e si fu soddisfatti e si ingoiò tutto….E adesso si recita la parte degli ammonitori e dei salvatori – là dove si portano le proprie colpe”.
Con qualche pointe leggera, da scrittore in campo. Contro il “letterato esistenziale”, tutto “spirito” e “valori supremi”, “che naturalmente legge «Hölderlin» e «Nietzsche», tiene in considerazione Spengler e Jünger, conosce Rilke e avverte inclinazioni romantiche verso la chiesa cattolica, rende attuale Pascal e non dimentica l’elemento popolare”. Hölderlin è la sola consolazione, quasi un alter ego. A proposito degli inni che Hölderlin aveva messo in ordine ma non pubblicato, una pagina spiega il “lascito” come lo intende Heidegger: “Il «lascito» si svela come ciò che è ampiamente venuto per primo”, zampillato come sorgente - intuizione, illuminazione.
Il messaggio si presenta umile - è tutto nella posizione: “Noi restiamo ovunque solo nel preludio dell’inizio”. O forse no, il messianico non è modesto: “Solo alcuni singoli e solo coloro che sono nascosti ai loro «tempi» sono capaci di chiamare una volta il Dio e di aspettare quello che deve venire”.
Martin Heidegger, Riflessioni XII-XV, Bompiani, pp. XI-371 € 25

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