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domenica 22 aprile 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (360)

Giuseppe Leuzzi

La donna del Sud: è calabrese la settantunenne Rosetta che a Roma controlla il “mercato” dei posteggiatori abusivi. I Carabinieri ci hanno messo qualche decennio a stanarla.


Franco Cordelli dichiara il teatro napoletano l’unico teatro italiano del Novecento - “La storia del teatro napoletano, ossia del teatro italiano del Novecento” (La Lettura). E cita nel’ordine: Viviani, Eduardo De Filippo, Peppino, Patroni Griffi, De Simone, Enzo Moscato e Mimmo Borrelli. Dimentica qualcuno, anche tra i napoletani, ma  non importa: è vero che a Napoli tutto è teatro. Anche la violenza.

Grande finezza di Salvini, il ragazzone sporchetto alla moda, che relega a spalla al Quirinale Berlusconi ottantenne. E uno che gli ha fatto da chaperon fino alla vittoria, ha salvato la sua Lega dal ridicolo nel 1994 – la Padania, l’ampolla del Po, i Serenissimi – e dalla scomparsa nel 2001, e gli ha insegnato come stare a tavola, se non a maneggiare la forchetta, al governo. Senza scandalo per nessuno. Molto milanese. 

Un processo per mafia fa sempre piacere, e una condanna ancora di più. Ma a Palermo si è processato per mafia negli ultimi cinque o sei anni solo lo Stato: alcuni ufficiali dei Carabinieri e alcuni ministri – oltre al solito Dell’Utri, non potendo incastrare Berlusconi. Non si sono state tangenti, estorsioni, minacce, attentati, assassinii a Palermo e provincia negli anni del processo, e questo dovrebbe dire la giustezza del processo stesso. O la stoltezza?

Il Sud è un’infezione
Due terzi dei deputati di Grillo vengono dal Sud. Il Sud estende all’Italia il suo rifiuto della politica, la trascuratezza, l’abbandono. A una banda di vaffanculisti cazzeggiatori, di nulla esperti – senza mestiere, senza studi, senza capacità di fare. L’Italia l’aveva estesa ai media, specie ai grandi giornali, all’insegna del “novismo”, quanta stupidità. Il Sud la estende agli elettori, ai compagni di merende del Centro, ai furbi padani. Che sapranno cavalcare la tigre, almeno loro, almeno si spera,  a questo siamo giunti.
Il Sud non solo è malato, è infettivo: quello che non ha dato ai 5 Stelle lo ha dato a Salvini. Ai padani.

 La storia si fa a Milano

Ferramonti in musica. È una foto ricordo di una cinquantina di personaggi europei della musica, in posa. Ben vestiti e curati. Gai, perfino sorridenti. Insieme risuscitati per uno spettacolo che si terrà il 26 a Lugano, in Svizzera. Ideato da Viviana Kasam, giornalista del “Corriere della sera”, sulla base delle ricerche di Raffaele Deluca, musicologo milanese.
Ferramonti è una località del comune di Tarsia, nella pianura cosentina verso Sibari, nota come denominazione di uno dei campi di internamento creati da Mussolini nel 1940 per gli ebrei e gli oppositori, cattolici, ortodossi, espulsi da tutta Europa dai tedeschi. Di Ferramonti la storia è più o meno nota – ricostruita da non calabresi. Molti aspetti, compresa la qualità dei confinati, il trattamento, la durezza del confino, forse relativo forse no, restano ancora da analizzare. Ma la Calabria non lo sa, lo sa la Svizzera, con Milano.
Lo spettacolo ticinese si intitola “Serata colorata”. Traduzione di “Bunter Abend”, come gli internati, di origine tedesca prevalentemente, o di cultura mitteleuropea, chiamavano i loro spettacoli musicali serali. Si articolerà sulle musiche nelle quali il coro e l’orchestra degli internati si erano un po’ specializzati, racconta Deluca a Enrico Parola su “La Lettura”: :Mozart, Brahms, Chopin, Schubert, il coro dei Pellegrino dal «Tannhäuser» di Wagner, e arie verdiane”. Anche composizioni originali, racconta sempre Deluca: “Cinque anni fa un’erede di Kurt Sommenfeld venne in Conservatorio a Milano  per regalare le oltre 300 partiture autografe del nonno, su alcune era riportato Ferramonti come luogo di composizione”. Altri musicisti di fama a Ferramonti: il baritono Paul Gorin, di Lipsia, figlio di ebrei russi, internato poco prima di due spettacoli nella stagione della Scala; il violinista viennese Isaac Thaler, “sodale di Berg e Schönberg”; il maestro Lav Mirski; il coro della sinagoga di Belgrado.
Gli internati della foto, vestiti impeccabilmente di grigio, in giacca e cravatta, esibiscono come strumento solo una fisarmonica. Ma il Vaticano, su richiesta di un frate mandato visitatore al campo, il cappuccino alsaziano Callisto Lopinot, mandò un armonium e un pianoforte a coda. “I violini”, ha ricostruito Deluca”, “furono fabbricati per riconoscenza da Nicola De Bonis, un liutaio di Bisignano”, altro centro cittadino, prossimo di Tarsia, “che soffriva di problemi gastrici e venne curato da un medico internato”.


I promessi sposi sono del Sud
Si fatica a leggere “I promessi sposi” perché ambientati in Lombardia, seppure del Seicento. Inevitabile Manzoni si sovrappone, l’ombra dell’artefice, cosmopolita, romantico, figlio e nipote d’illuministi, integri e intelligenti, celebri in tutta Europa, nobile, devoto, alla fede e alle buone cause, nella Milano repubblicana e libertaria del primo Ottocento, su una storia di soprusi, servitù e beghinaggio. Il romanzo sembra solo ovvio trasponendo, se si potesse, la vicenda nel Golfo di Napoli, invece che su quel ramo del lago di Como, o tra San Vito Lo Capo e lo Zingaro: è una storia di mafia. Renzo è la vittima, di cui non si tiene nemmeno conto. Senza altra difesa che fare a sua volta il male, che non sa fare. Tra buoni spiriti, anche pentiti, ma inefficaci. Un ordine pubblico inesistente - la Legge. E un destino comunque di sopraffazioni, fin nella stessa finale piccola concessione. 
Il male, si sa, è diabolico, a doppia faccia : intimorisce, ma affascina e contagia. È per questo più forte del bene, anche se non alla sommatoria finale – il mondo è un percorso di cicatrici, un Candido di qualsiasi epoca, e non solo al Sud, avrebbe problemi a passarci sopra. È per questo anche sotterraneo. Ma assume forme a volte spregiudicate e anzi esibite, spudorate: è allora che si fatica a sopportarlo. È il caso del Sud, e dei “Promessi Sposi”. Di cui Salvatore Natoli oggi, “L’animo degli offesi e il contagio del male”, mette in rilievo non l’aspetto consolatorio, che si insegna a scuola, ma la rappresentazione dell’arbitrio. Un romanzo del male, appunto, di mafie. Nell’assenza-insolvenza - è la stessa cosa - della Legge, la polizia, la politica, lo Stato, la Giustizia, si chiami come si vuole. È una vicenda di arbitrio, impunito, impunibile, a cui si accompagnano come sempre indigenza, malattia (peste), morte.
La cosa non è dirimente: Manzoni si celebra per altri versi, la storia è storia, il Seicento era il Seicento, e semmai il cronista, o lettore veloce, ne può inferire che il male non dura, neanche il male, come tutto che finisce. Ma serve a mettere in quadro il male oggi nel Sud.

Se la mafia sono i Carabinieri
Non si analizza la portata della condanna al processo Stato-mafia a Palermo, Come se fosse un’ubbia di un giudice inadeguato o prevenuto. Mentre è la sanzione per una parte dello Stato “sporca del sangue delle vittime delle stragi” di mafia: è questa la motivazione della condanna chiesta dal pm Vittorio Teresi.
Teresi giovane si ricorda per sfide pubbliche epiche con Agostino Cordova a Palmi, quando tutt’è due erano alla Procura di Palmi (Cordova ne era il capo), su chi dei due era stato favorito dalla ‘ndrangheta alla Tonnara, la spiaggia di Palmi. Per l’uso della barca o per la ristrutturazione di casa. Sfide aperte, sulla posta di “la Repubblica”.
Si tace anche sul capo di accusa. Leggermente variato nell’ultima redazione, ma sostanzialmente quello già giudicato con Calogero Mannino, che si sganciò dal baraccone del processo quinquennale  col rito abbreviato. Da leggere per credere.
La “trattativa” – la trattativa con la mafia, allora di Riina – è partita dopo l’assassinio di Salvo Lima. Mannino, ritenendosi secondo nella lista di Riina,  aprì una trattativa con Riina e Provenzano per rifondare il patto politico. Usando come mediatore Vito Ciancimino, l’ex Dc allora in libertà vigilata a Roma, a piazza di Spagna. Col patrocinio dei Carabinieri, grazie alla “risalente conoscenza” di Mannino col comandante del Ros dei Carabinieri, generale Subranni. Che ne incaricò il capo dei Ros a Palermo, colonnello Mori. Che si fece aiutare dal capitano De Donno. Un appeasement che convinse Riina, dice il capo d’accusa, della bontà delle stragi, e lo portò a quelle terribili del 1992, contro Falcone e poi contro Borsellino. Ma, contemporaneamente, ad abbandonare gli attentati contro Mannino e gli altri politici amici.
Poi successe che i Carabinieri riarrestarono Ciancimino, a fine 1992, e poco dopo anche Riina. E allora, dice il capo d’accusa, la trattativa ripartì con Provenzano da una parte e Dell’Utri dall’altra. Ma sempre nell’ottica di Riina, di trattare e insieme di fare stragi. Da qui quelle del 1993 ai Georgofili di Firenze e a Milano. Dell’Utri fu agganciato nell’ottica di asservirsi il futuro governo di Berlusconi. Che ancora non aveva fondato il suo partito e non ci pensava.
Questa la trama dello Stato-mafia. Il processo ha aggiunto altre ghirlande alla corona. La trasferta della corte d’assise in mondovisione, nella trepida attesa che Spatuzza, il killer teologo, snidasse Berlusconi in persona. O il “papello” di Ciancimino figlio, una storia alla Münchhausen – ma che pena i principi dei cronisti giudiziari al carro del giovanotto, avendolo conosciuto quando faceva passerella col padre, ex carcerato, da piazza di Spagna a San Lorenzo in Lucina per firmare dai Carabinieri.  

Tutto si può dire. Per esempio che Berlusconi fondò il suo partito nell’ottica della trattativa. Quando Provenzano agganciò Dell’Utri ancora non ci aveva pensato. Né sapeva che avrebbe sconfitto la “gloriosa macchina da guerra” dell’ex Pci di Occhetto. Ma, per esempio, non fu Provenzano a fargli vincere le elezioni? Perché no. Anzi, è storia più persuasiva dei settanta giorni frenetici di Mannino. 
Anzi anzi, questo potrebbe essere un terzo processo Stato-mafia, dopo Contrada e Mori. O l’ennesimo: non è infatti il primo processo della Procura di Palermo contro i Carabinieri. Dopo quello contro la Polizia, con l’arresto di Bruno Contrada, ora riabilitato, dopo venticinque anni di condanne palermitane.
Mori e De Donno non sono stati carcerati, e questo non si sa perché. Inoltre, sono stati assolti in almeno un altro paio di processi analoghi a Palermo, dopo molte traversie. Ma ora, col lodo Montalto, dopo cinque anni o sei di dibattimento, sono probabilmente a un quarto del loro venticinquennio di processi alla Contrada. Non è il solo esito dello Stato-mafia.
Un po’ come si vede sullo schermo “Il giovane Karl Marx”, che col “Manifesto dei comunisti” fece anche un monumento alla borghesia, l’atto d’accusa che il giudice Montalto ha recepito, aggravandolo, è anche un omaggio alla mafia. Lima fu assassinato il 12 marzo 1992. La strage di Capaci è del 25 maggio. In meno di due mesi e mezzo Mannino avvia una trattativa, suborna i Carabinieri, assolda Ciancimino (che, sia detto en passant, era un calibro molto più grosso di Mannino), si fa dire si o forse no da Riina, che però organizza e porta a effetto in poche ore attentati logisticamente e strumentalmente complicatissimi, anche per i peggiori servizi segreti: questo non succede nemmeno nei film d’azione. Le stragi di Capaci e via D’Amelio non si organizzano e si effettuano come pensano i giudici di Palermo.
Ma, poi, è possibile che non ci sia mafia a Palermo e dintorni, dopo Riina e Provenzano? Se i processi per mafia si fanno a polizia, Carabinieri, ministri, e Dell’Utri, in attesa di Berlusconi. È una commedia dei furbi? Si spera senza mazzette.

leuzzi@antiit.eu

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