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giovedì 13 gennaio 2022

La morale del figlio sacrificato

Il famoso poemetto “If”, di precettistica al figlio già adulto, “un piccolo tr attato, scritto in poesia, sull’educazione”. L’edizioncina si segnala per il saggio di Vittorino Andreoli che lo inquadra. Nell’etica positivista di fine Ottocento, di cui Kipling era, come ogni vittoriano anche di fuori via, imbevuto. E per rispecchiare, bizzarramente, la pedagogia di cui Kipling era stato vittima da bambino e poi ancora da adolecsente. Separato dai genitori a sei anni, mandato dall’India a fare le scuole in Inghilterra, insieme con la sorellina di due, pensionanti di famiglie che avevano l’obbligo, pedagogico, di non familiarizzare con i bambini affidati. Poi per un anno con i genitori in India, che a questo punto è già per lui una favola. Quindi di nuovo solo con la sorella n Inghilterra, per completare gli studi, altri sette anni. Quando torna a Lahore, avendo lasciato il college, a diciassette anni, è infine felice. Una liberazione. Scrive e pubblica poesie e racconti, affascinato dalla città, “quella meravigliosa, lurida, misteriosa collina di formiche”. L’anno dopo rientra anche la sorella. A ventun anni viene iniziato alla Massoneria, la “loggia madre”. A venticinque fa un giro del mondo e si stabilisce a Londra – a 42 anni, nel 1907, sarà Nobel.
A 25 anni Kipling ha già avuto bisogno di un’autobiografia. Dove racconta normalità immonde: “Uscendo una volta dalla chiesa, ho sorriso… Fu riportato alla signora Sarah”, presso la quale alloggiava, “e fui punito”. Annota Andreoli: “Confesso di avere letto queste pagine incredulo di come potesse essere l’educazione nella capitale dell’Impero britannico”. 
Quando invece pensa al figlio, e a come preservarlo e sostenerlo, gli indirizza questo poemetto, giustamente famoso per l’impianto e lo svolgimento, la scansione, la musicalità. Ma improntato alla durezza. Argomentato come possibilità (“Se”) e non come precetto, ma di un condizionale imperativo. Sono peraltro molte le condizioni da adempiere per “essere un uomo”.

Andreoli lo dice un modello pedagogico inclusivo, applicabile anche all’autore, del sapersi rendere protagonisti della propria esistenza, i dubbi e le difficoltà prospettandosi come possibilità - si vince, ma si può perdere: “Questo umanesimo mi affascina forse perché oggi fatico a trovarne traccia e vedo dominare le inimicizie, le lotte, persino all’interno delle famiglie, per non parlare delle guerre tra le comunità e tra i popoli”. Il “se”, dunque. E l’attesa: non “in tono fatalistico o passivo”, nota sempre Andreoli, ma “il segreto per cui, nella crescita, vale più l’attesa che l’azione” – precetto e metodo specialmente utili “in questo mondo riempito di tempo reale, che vuole dire dell’immediato, favorito dalle macchine (i computer)”.
Il precetto è semplice: avere fiducia in se stessi, anche nelle disgrazie. Curiosamente però, certo non per lo psicologo, manca l’affettività, la cui assenza è stata particolarmente sofferta nell’infanzia e la prima giovinezza dallo scrittore, le emozioni, i sentimenti: Kipling ripete col suo proprio figlio l’esperienza da lui sofferta. E si spingerà qualche anno dopo - il poemetto fu pubblicato nel 1910 - a volere a tutti i costi nel 1914 il figlio, appena diciassettenne e comunque riformato per problemi di vista, arruolato in guerra, nella quale verrà ucciso, senza speciale gloria, pochi mesi dopo.  
Rudyard Kipling,
Sarai un uomo, figlio mio, Garzanti, pp. 61 € 4,90

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