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venerdì 14 gennaio 2022

La tolleranza può essere oppressiva

La tolleranza come un altro modo della repressione – nella terminologia italica il paternalismo. Marcuse interviene nell’ambito della critica allora in corso del riformismo, che veniva denunciato dalla New Left come una forma della repressione e non una via di liberazione.
Riletto come vuole la riedizione, come un’anticipazione del conformismo dei social, sotto la veste ribellistica, sarebbe interessante, ma non ne ha il respiro: i social non sono “riformisti”, sono il bar Sport. A un certo punto, Marcuse individua il problema quale si pone oggi: “Entro la democrazia affluente prevale la discussione affluente, ed entro la struttura stabilita essa è tollerante in larga misura. Tutti i punti di vista possono essere ascoltati, i comunisti e i fascisti, la sinistra e la destra, il bianco e il negro, i crociati dell’armamento e quelli del disarmo. Inoltre, in dibattiti strascicati senza fine, l’opinione stupida è trattata con lo stesso rispetto di quella intelligente, la mal informata può parlare quanto quella informata e la propaganda cavalca al passo con l’educazione, il vero col falso”. Ma non lo risolve: la gente, si limita a dire (Marcuse risulta qui fare appello alla “gente”, senza le virgolette, ma nel suo caso l’inglese people s’intende popolo) deve essere in grado di scegliere, autonomamente, eccetera.
Tema del saggio, partendo da Stuart Mill e dall’intolleranza – “l’intolleranza ha rimandato il progresso e ha provocato massacri d’innocenti per centinaia d’anni” – è: e la tolleranza? “Ci sono condizioni storiche in cui la tolleranza impedisce la liberazione e moltiplica le vittime che vengono sacrificate allo status quo? La garanzia indiscriminata di diritti politici e libertà può essere repressiva?” La risposta ovviamente è sì. Ma dopo mezzo secolo non è persuasiva – la democrazia, per quanto mal funzionante, non è una dittatura, un regime, o uno sfascio. Anche se gli abusi sono possibili, e anzi si vedono, soprattutto nel ganglio delicato della formazione dell’opinione pubblica, del giudizio di ognuno.
La conclusione, se non lo sviluppo, è netta e, questa sì, critica di assetti oggi perfino esageratamente veri, con le tante correttezze minoritarie e iperminoritarie con cui si esercita la tolleranza - ci si gingilla a copertura di un assetto affaristico, distruttivo. Con l’esito, non surrettizio, di relegarla a un’iperrealtà imbelle, e insieme di promuoverne il rifiuto. “La pubblicità dell’autorealizzazione” promuove “un’immediatezza” che è “cattiva immediatezza” (Hegel): “Incoraggia il noncoformismo e il lasciar fare in modi che lasciano interamente intatti i motori reali della repressione nella società, che anzi rafforzano questi motori sostituendo le soddisfazione della ribellione privata e personale” alla “esistenza politica”. La conclusione è paleomarxista ma evidente: “La tolleranza che fu la grande meta dell’era liberale viene ancora professata”, ma il processo economico e politico è soggetto ad un’amministrazione onnipresente ed effettiva in accordo con gli interessi predominanti”. A quello che si dice - si diceva? - il pensiero unico, degli affari. 
A cura di Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio, un saggio, ripreso da “Giovane Critica” del 1967, parte del volume “A Critique of Pure Tolerance”, 1965, un titolo che vuole ripetere Kant, di Barrington Moore jr., H. Marcuse e Robert Paul Wolff. Un volume composto di tre saggi, “Al di là della tolleranza” (Wolff), e “Tolleranza e Scienza” (Barrington Moore jr.), prima di questo di Marcuse – che in originale è titolato “La tolleranza repressiva”. Dell’edizione di Mughini è rimasto, oltre l’incerta traduzione, un rimando a una p. 82, che nell’edizione originale corrisponde alla seconda pagina del saggio, la 6 di questo estratto.
Herbert Marcuse, Critica della tolleranza, Mimesis, pp. 44 € 3,90

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