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mercoledì 23 novembre 2022

A Sud del Sud - Il Sud visto da sotto (509)

Giuseppe Leuzzi

La Lega vuole assolutamente il Ponte sullo Stretto. Di Venezia? Di Udine? Di Ponte di Legno? No, di Messina. Per affondare meglio la Sicilia, e la Calabria insieme?

Però. Conte, il succedaneo di Grillo ai 5 Stelle, che ha a cuore i giovani, il Sud, il reddito di cittadinanza, e nel mirino la Lega, che si ribellò al suo governo, perché non organizza una gita obbligatoria degli italiani allo Stretto di Messina che la Lega vuole abbrutire? Anche una gita di corsa, una giornata, con arrivo all’alba e partenza al buio, quando lo Stretto si circonda di luminarie, sfavillanti sulle omeriche acque – che con la stagione viene già alle quattro, le cinque.

È una proposta modesta, ma Salvini ne uscirebbe con le ossa rotte – si dice per dire (che vorrà dire?).

La Fabbrica del Ponte – o il miracolo della moltiplicazione

“Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come guardasti il monte guarda il ponte”. Nella bibbia mitica (1.300 pagine, di 40 righe, di 80 battute) che Giuseppe Occhiato ha lasciato e ora si pubblica, “Oga Magoga”, l’eroina Brandoria, sotto minaccia, prende a “recitare precipitosamente formule su formule, carmi e ciarmi, uno scongiuro appresso all’altro”. Culminando con l’invito: “Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come guardasti il monte guarda il ponte”. Ed è un guaio, perché ora come ora san Cipriano dell’Aspromonte, seppure è esistito, non esiste più, mentre il ponte, che tanto avrebbe bisogno di uno sguardo salvifico, miracoloso, sì. Perlomeno, si dice che sì, il Ponte c’è.

È però anche vero che qualche miracolo, anche in assenza di santi, si è già prodotto, a opera del Ponte stesso. Che dunque è da dire miracoloso?

Attorno all’Opera o Fabbrica del Ponte, quali sono in uso per i miracoli dell’architettura: il manufatto è ancora di là da venire, ma l’Opera del Ponte è attiva e industriosa, da quasi mezzo secolo ormai. Ritoccando e rifacendo, in assenza del manufatto, studi, disegni e progetti, del Ponte sopra il mare, sotto il mare, sospeso, su piloni, a campata unica, con tiranti, con mare forza 9, e terremoto magnitudo 10 – perché no, sulla carta tutto è possibile. Solo il traffico non è stato calcolato: non si sa quanti siciliani decideranno di passare il week-end in Calabria, poiché di questo si tratta, oppure di farsi un viaggetto di qualche migliaio di chilometri in macchina fino a Roma o addirittura a Milano, a Chiasso, al Brennero – a Ventimiglia no, la Francia non permette.

Da quando Pietro Ciucci, il suo primo e massimo fautore nei vent’anni da direttore generale dell’Iri e poi presidente della Stretto di Messina Co., se ne è occupato, fino a dieci anni fa, un miliardo e due il Ponte l’ha già generato. Non sprecato, si sa che la grazia divina è generosa, non del tutto:  molti architetti, ingegneri, geometri, e persone d’affari se ne sono giovati – si continua a dire uomini d’affari, ma non ce n’è più motivo. E i primi appaltatori, che ora vogliono la metà di quella somma, 600 milioni, come indennizzo con penale, per non aver fatto nulla.

Gioia Tauro no, il Ponte sì

Il governo tedesco ha ceduto una quota del terminale container di Amburgo alla società statale cinese Cosco. Contro le pressioni, anche vigorose, degli Stati Uniti. Le ragioni di sicurezza accantonando all’esigenza del porto di sostenere la concorrenza di Rotterdam e Anversa. In Italia si tenta in tutti i modi di cortocircuitare il portocontainer di Gioia Tauro, che è in concorrenza con Barcellona e Marsiglia. Tenta di boicottarlo il governo – almeno nell’edizione Draghi. Per quale motivo? Per nessun motivo – non è che boicottando Gioia Tauro si avvantaggia Genova, o Trieste, o Livorno, o La Spezia, o Napoli. Semplicemente, così: per non collegarlo all’autostrada e alla ferrovia – collegarlo decentemente, non con le “bretelle” attuali. Una spesa minima.

In compenso, si offre alla Calabria il ponte sullo Stretto. Di cui la Calabria non ha nessuna necessità, e semmai molto da temere, per il paesaggio, che è un patrimonio, e per l’inquinamento. Forse ne hanno bisogno i siciliani, ma non ne sono convinti: non ci tengono specialmente, se non come un lusso in più fra i tanti di cui l’isola è depositaria - tanto più che il danno al paesaggio lo farebbe alla Calabria, seppellendola nella migliore delle ipotesi sotto le polveri, da luogo delle sirene trasformandola in luogo mefitico di passaggio. Quello che, si parva licet, l’Austria cara al cuore della Lega si rimprovera dopo avere accettato l’autostrada del Brennero, un incubo che ha desertificato la valle, e ha fatto del Tirolo il luogo di passaggio dello spazio comune industriale Lombardo\Veneto-Baviera.

Questo nell’ipotesi che il Ponte non solo si cominci ma si finisca. Cosa impossibile: allo stato attuale delle opere pubbliche in Italia non basta una legislatura per avviare un progetto e poi completarlo. Sono più le opere non finite e abbandonate a metà, montagne di euro spese per avere deturpazioni, scheletri di acciaio e cemento armato - per esempio dentro e attorno a Roma. Si inizia, e poi non si finisce. Si inizia distruggendo, si prendono i primi soldi, e si scappa, al coperto di varianti e di tribunali amministrativi. Lo Stretto, che oggi si guarda come un mi’rāg del profeta Maometto, una visione, un paradiso, sarà ridotto a una discarica. Forse per questo la Lega lo vuole assolutamente.    

Sicilia

“Un milione di siciliani lontani dall’isola”, “Il cuore freddo di Catania”, verso l’ennesimo sbarco di ong tedesche. Non c’è giorno in cui l’isola non meriti titoli killer. Non autocritici o a fin di bene, poiché si ripetono sempre cuopi e anzi neri, ma un un approccio, una forma mentis. Di buono nell’isola ci sono solo gli spettacoli e le arti – compresa ultimamente la cucina d’autore – ma solo se di amici e compagni di cordata, o di avvedute pr.

Non si saprebbe non apprezzare l’autocritica. Se non è denigrazione – o anche solo un complesso, l’ex complesso di inferiorità.

Per l’apertura della stagione lirica al Massimo di Palermo si pubblica la foto del sindaco Lagalla con l’ex direttore artistico Marco Betta e il sovrintendente Francesco Giambrone. Lagalla sovrasta gli alti due di tutta la testa: ci sono giganti anche in Sicilia.

Lagalla è un medico, Dc, portato da Dell’Utri e Cuffaro, due condannati per mafia. Anche Giambrone è medico. Non si può dire che l’isola non abbia continuità – resilienza?

Ha tradizioni recenti di rispetto, per la stagione d’oro dei “leoni di Sicilia”, come ora si vuole chiamarli, ma poi per tutto il primo Novecento. Un conservatorio che era un laboratorio musicale di prim’ordine, in Italia e fuori. Un’accademia di belle arti che attirava giovani da tutta Europa. Un’interlocuzione costante dei letterati con Roma e con Milano. È nel dopoguerra che si è imbastardita, fino a infognarsi nella mafia e le “sicilitudini”.

Sciascia, che è grande scrittore, e anche ricercatore storico, non è quello che più di tutti ha ridotto la Sicilia a “un caso” - si è fatto un monumento sulla Sicilia? La Sicilia di Pirandello e di De Roberto, che pure era molto più overa, e forse altrettanto mafiosa, era molto più ricca di quella che Sciascia ha configurato.

Cateno De Luca ha subito una decina d’inchieste giudiziarie, due arresti, e da sindaco di Messina un processo con la richiesta di tre anni di carcere, ma non è mai stato condananto. Errori giudiziari non possono essere, sono troppi.

Ma la città di De Luca, Messina, quella sì, ha cambiato natura. Aveva un’università ricca di bei nomi. Serviva la Calabria, per l’università e i commerci – a partire dalle “bagnarote” che contrabbandavano il sale sui ferry-boat. Aveva un porto attivo, per il Nord Europa e per le marinerie Nato. Era una piccola metropoli. Ora non più, è una provincia qualunque, e senza carattere – una provincia “babba” si sarebbe detto un tempo in siciliano. Era governata dalle grandi famiglie, Aldisio, Stagno D’Alcontres, Bonaccorsi, Pulejo. Ora De Luca, Pd anomalo – come il De Luca campano: sarà il nome?

Si trovano nella “lingua” di Camilleri alcune parole che non usano in siciliano ma sì in calabrese – catoju, basso, etc. . Non è meraviglia, la Calabria è stata latinizzata via Sicilia, e i dialetti neolatini di entrambe le regioni dunque si somigliano. Ma è un caso raro, probabilmente unico, nella letteratura siciliana, un’insorgenza calabrese, per un qualsiasi motivo: al là dallo Stretto c’è “il continente”.

Camilleri ha anche, tra le comparse e le location non isolane, ricorrenti riferimenti alla Calabria: Gioia Tauro, Cosenza, amici vecchi e nuovi di Montalbano, calabresi finiti male in Sicilia. È un caso unico fra i narratori isolani: la distanza tra Calabria e Sicilia è curiosamente considerevole. Un tempo Messina era l’università della Calabria, e conseguentemente la casa dei tanti, prolungati, fuori corso. Da qualche decennio non più, l’estraneità è totale.

Attorno allo Stretto, un tempo mare comune, resta tra i paesi dei Peloritani, le montagne di Messina, il miraggio in autunno dei porcini dell’Aspromonte, e d’inverno per gli sciatori a Messina delle piste di Gambarie invece che dell’Etna. Niente di più. Messina è pure stata per secoli fedele praticante del santuario di Polsi, all’interno dell’Aspromonte, della Madonna della Montagna – il luogo di culto di più antica continuità in Europa.

Jünger ne fa la terra dell’eroico e del tirannico, sfacciata, un po’ – “Terra sarda”, 151-2. Al termine di una vacanza in Sardegna, maggio 1954, annotando: “Malgrado la molteplicità delle testimonianze, trovo che qui la storia mostri il suo volto con maggiore discrezione che in Sicilia, dove l’eroico e il tirannico lasciano di sé possenti tracce”. Nei luoghi e nelle persone: “La differenza è inconfondibile, anche nel carattere delle persone. Paragonata alla Sicilia, la Sardegna è una retrovia, un teatro di provincia”.

Trecentomila siciliani, su una popolazione di cinque milioni, non sanno leggere né scrivere. La Sicilia è anche all’ultimo posto per percentuale di laureati sulla popolazione attiva, tra i 25 e i 64 anni, non arrivano al 15 per cento. Praticando la Sicilia, invece, non si direbbe.

È la primavera per antonomasia per Proust, colorata (azzurro) e profumata. Proust se lo dice a Parigi, al passaggio della stagione, che non può tardare (alle prime righe di “Vacanze di Pasqua”, “Le Figaro”, 25 marzo 1913): “Siamo a Parigi, è inverno, e tuttavia, mentre si dorme ancora a metà, si sente che comincia una mattinata primaverile e siciliana”.

leuzzi@antiit.eu

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