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giovedì 9 settembre 2010

La Calabria spiegata ai calabresi

Ci si può ritrovare a metà viaggio e chiedersi: “Chi me l’ha fatto fare?” È capitato a tutti: il viaggio per conoscenza è una fatica a volte insopportabile, il bello del viaggio è nel piacere. Il giovane ginevrino Charles Didier, che a 26 anni nel 1830 si è fatto quattromila miglia a piedi, a suo dire, in Calabria e in Sicilia, se lo chiede alla fine del suo periplo, stranamente, a San Lorenzo Bellizzi, tra pastori buoni ma puzzolenti, sotto un diluvio di pioggia, ospite di un parroco che in quel remoto villaggio è vessato dai Borboni come carbonaro. Le condizioni del viaggio più spesso sono ingrate. O il viaggiatore è sempre, al fondo, quell’inglese che Didier ha incontrato a Longobucco, un ingegnere che dirige una miniera, “non sa una parola d’italiano”, non gradisce la conversazione, e passa il tempo rosolando allo spiedo un capretto. L’occhio dello straniero insomma può essere traditore, specie se i suoi ricordi di viaggio si fanno leggere, e bisogna diffidare. Ma è un fatto che il forestiero molto spesso ne sa di più del locale.
Nel 1830 non era stato ancora creato il “Sud”, ma ce n’erano le premesse. “Non si parte da Napoli per la Calabria”, esordisce Didier, “come da Parigi per la Bassa Normandia, benché la distanza sia quasi uguale. Calabria è una parola nefasta che terrorizza anche a Napoli, vale a dire che terrorizza a Napoli più che altrove”. Di suo, nel suo periplo, Didier sentirà molte storie di rapimenti di persona a fini di riscatto, con taglio del naso o delle orecchie a scopo persuasivo. E di eccidi, a opera di briganti e di forze borboniche. Ma, benché viaggi a piedi senza coerente giustificativo, e possa quindi essere in sospetto ai molti, un carbonaro, una spia, un agente delle tasse, un antiquario ladro, un principe in incognito, fa le sue quattromila miglia senza incidenti. Più spesso oggetto di meraviglia, nei baraccamenti di pastori che accorrono a frotte a vederlo, compiangerlo, lodarlo, regalarlo. “Questi boschi così temuti, in effetti non lo sono poi così tanto”, scriverà. “e questi famosi briganti calabresi sono come i bastoni ruotanti di La Fontaine: da lontano sono qualcosa, da vicino non sono niente”. Che non è vero, ma è vero che da vicino sono solo briganti. Il timore-che- non-è-vero-timore non è però senza effetto: “Il terrore che ispira rende il calabrese cattivo, perché niente demoralizza di più popoli e individui del disprezzo e dell’odio pubblico”.
Questo diario di viaggio ignoto, ripescato da Saverio Napolitano per l’editore calabrese Rubbettino, ha una capacità di giudizio singolare. Su fatti forse non rilevati perché evidenti, come la natura che muta a ogni tornante: “In poche ore si passa in Calabria, come per incanto, per tutte le latitudini del globo, come se si andasse dagli aranceti d’Africa fino ai ghiacci della Lapponia”. E su punti di vantaggio e modi di essere che restano complessivamente ignoti alla pubblicistica locale centottant’anni dopo. Didier conosce, e valuta come ancora oggi nella stessa Calabria non si fa, i personaggi illustri dei luoghi che visita, Telesio, Campanella, Jerocades, Giglio, Mattia Preti, e Cicerone in fuga, braccato. Nota che si mangia pane raffermo e olio rancido in un paesaggio disseminato di ulivi e grano – la feracità della natura e l’arretratezza delle colture. “Lo Stretto di Messina è il Bosforo d’Italia,… Reggio è il paradiso della Calabria”, anche questo ancora non si sa: “I delfini saltano allegramente, di cui questo mare è la patria classica”. Esercita “il celebre eco di Condojanni”. Sa che, nella patria putativa di tutte le illegalità, Catanzaro ha avuto dal 1497 un habeas corpus, caso unico in Italia, imposto al sovrano assolutista di Napoli: un cittadino non poteva essere imprigionato fino alla pubblicazione della sentenza di condanna, la città non pagava le tasse che non aveva votato.
Charles Didier, Viaggio in Calabria, Rubbettino, pp. 107, €

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