Cerca nel blog

giovedì 21 agosto 2014

Deledda forse era Aleramo

Due storie assembla Pirandello, e un personaggio e mezzo. La prima storia è di Roma primo Novecento, pettegola, apatica, insieme inetta e divoratrice. La seconda è della Val di Susa – sì, c’era già un romanzo della Val di Susa ideale (i biografi non sanno dire che Pirandello ci sia mai stato) un secolo fa. O della “sana” vita provinciale e agreste, probabile trasposizione dell’infanzia e l’adolescenza dell’autore sotto la Valle de Templi ad Agrigento, sia pure con le ipocrisie e i conformismi del Piemonte. Il personaggio è il marito di una moglie scrittrice, che con lei è venuto dalla provincia a Roma per sostenerne il successo. L’altro personaggio, sfocato, è la scrittrice stessa, che si rifiuta al ruolo di moglie.
Titolo infelice di un romanzo trascurato, per primo dall’autore. E tuttavia storicamente interessante, su Roma e l’Italia alla vigilia dell’impero, in Libia e oltre, sul tipo della scrittrice, la donna che irrompe da protagonista nel mondo delle lettere (Grazia Deledda, o forse Sibilla Aleramo), e sulla coppia o il matrimonio, il rapporto familiare lui-lei che sarà tanta parte delle “Novelle”, invece ottime, e del teatro di Pirandello.
L’originale, intitolato “Suo marito”, fu concepito da Pirandello come una satira del marito di Grazia Deledda. La quale era in effetti venuta dalla Sardegna a Roma, per liberarsi dell’etichetta di scrittrice sarda, con un marito come il Giustino del romanzo, anche se senza diventare l’amante del suo potente patrono letterario e politico della capitale – il senatore Ruggero Bonghi. Più dubbio è alla rilettura che il personaggio di lei, Silvia, sia modellato su Grazia Deledda: il modello era persona socialmente schiva, mentre Silvia è una che, seppure con riserva d’autore, creativa, capace, ci marcia.
Silvia resta sullo sfondo del romanzo, ma tutto il contorno, l’amante importante, il figlio rifiutato, con la famiglia, il carrierismo, la separazione, rinvia, più che a Deledda, a Rina Faccio, alias Sibilla Aleramo. Inconsciamente, è probabile, ma è su questa che Pirandello modella la scrittrice: Sibila era e si voleva personaggio femminista, e scandalistico, a differenza di Deledda. Era milanese e non provinciale, ma abbondantemente provincializzata, nell’adolescenza e la prima giovinezza. Nonché “creata” a Roma dal compagno Giovanni Cena, su cui in tutto l’amante di Silvia nel romanzo, Maurizio Gueli, è ricalcato, come autrice di successo e nello stesso pseudonimo, tratto da Carducci.
Ma il marito è quello di Deledda. Deledda si urtò, e Pirandello ritirò il romanzo. Lo riprese nel 1931, per migliorarne la scrittura, ma s’interruppe al quinto capitolo, a metà circa. L’edizione corrente è apprestata dal figlio Stefano. Resta un libro umoristico, e per questo mediocre, nell’insieme dell’opera di Pirandello. Lo si fa rientrare nella misoginia di Pirandello, che invece non era misogino. Più, semmai, dovrebbe rientrare nell’antipatia di Pirandello verso i padri, a partire dal suo proprio, e quindi verso i mariti – Pirandello ha costante, in tutta l’opera, una visione postmoderna nel senso comune, postfemminista, del matrimonio e la coppia. Giustino Roncella è uno che vive all’ombra della moglie, Roncella è il cognome della moglie. Una storia mediocre oggi forse perché troppo comune, nel femminismo d’ordinanza. Non fa ridere cioè, e nemmeno piangere. Sciatta anche, nella revisione – non risolta, ambigua.
La storia originale invece era di femminismo sincero: Pirandello aveva riconosciuto le qualità di Grazia Deledda fin dall’esordio vent’anni prima. Sulla sua consistenza aveva creato il marito-saprofita, il marito rinominato dalla moglie. Ne scriveva così il 18 dicembre 1908 a Ugo Ojetti: «Manderò pure al Treves, spero in aprile, il romanzo «Suo marito». Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda, intendiamoci…” – Ojetti, il principe allora delle lettere, non apprezzava Deledda e Pirandello si cautelava. Il personaggio della “giovane e illustre” scrittrice, tuttavia, Pirandello lasciò sullo sfondo, anzi caricandola aneddoticamente di una personalità altra. Un altro modo di esprimere la sua ammirazione, cioè, di non coinvolgere lei nello sberleffo, che è invece mirato sul marito e la società romana. Contro lo scetticismo, e anzi l’irrisione, di Ojetti attribuendole anche la trama di un “dramma di grande successo”, “L’isola nuova”, che poi Pirandello riprenderà in “La nuova colonia”. Il dramma è una “tragedia selvaggia”, dice ammirativamente in “Suo marito”, che fa rivivere Medea in “un’isoletta del Jonio, feracissima, già luogo di pena di reietti”, prostitute e barboni, “abbandonata dopo un disastro tellurico…”. Nuovi vincoli vi si formano, un po’ come in Grecia si creavano i miti, basati sulla maternità e la fedeltà, il cui tradimento merita la morte, come avverrà con Medea e i figli.
L’ultima edizione si segnala per essere stata curata quarant’anni fa, negli Oscar, nella Biblioteca dei Classici Italiani diretta da Giuseppe Bonghi!, da Corrado Simioni, lo studioso che le cronache avrebbero poi voluto a capo di una struttura terrorista, o antiterrorista, quale sarebbe stata una sua scuola di lingue a Parigi, Hypérion. Una storia infetta, da emigrati politici – quelli di Parigi sono sempre stati infiltrati, rissosi. O di invidia per la sua compagna, nipote dell’Abbé Pierre – una piccola copia del “Giustino Roncella”?
Luigi Pirandello, Giustino Roncella nato Boggiòlo

Nessun commento: