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mercoledì 19 dicembre 2018

Secondi pensieri - 370

zeulig


Femminicidi - La donna è il maggiore corpus delicti della storia degli esseri viventi e della contemporaneità, inclusi gli ebrei probabilmente dell’Olocausto, e gli animali domestici nei paesi arabi, per numero e gravità delle offese.

Innatismo – Da Erodoto e Platone a Federico II e a Montaigne e Descartes, la tradizione è antica del linguaggio innato, fino al ”ragazzo selvaggio” dell’Aveyron, del film di Truffaut.  Erodoto racconta di due neonati isolati alla nascita dal faraone Psammetico, nell’VIII se colo a.C., con l’imposizione alla balia di non pronunciare una parola in loro presenza, che invece parlano – la prima parola che pronunciano è “pane” in frigio, la lingua della balia. Analogo esperimento di Federico II non ebbe esito perché i neonati morirono prima di cominciare a articolare la lingua. L’argomento di Platone  è meglio reso da Montaigne: “Apologia per Raymond Sebond”, il teso più organico e ampio dei “Saggi”: “Credo che un bambino che sia stato cresciuto in perfetta solitudine, remoto da ogni associazione (che sarebbe un dura esperienza) avrebbe una qualche forma di linguaggio per esprimere le sue idee. È non credibile che la Natura abbia negato a noi questa risorsa che ha donato a tanti altri animali” – ma qui per imprinting, per “istruzione”.

Madrepatria - Per Hannah Arendt con Heidegger dopo Hitler non è solo un letto ritrovato, c’è l’amore della patria. Di un uomo che è la lingua e la cultura. Con cui esprimersi in libertà.
Ci voleva una filosofa per scoprire la vera madre: quando si perde la lingua si perde tutto. Non è una malattia, non grave, si sopravvive, ma senza gusto.
Gli emigrati a lungo hanno cercato moglie al paese d’origine, una qualsiasi ma che lo scambio consentisse nella lingua comune, riposante, rinfrancante. Sia pure solo per la triviale quotidianità - ma non c’è altra intimità, nelle grandi questioni non c’è scambio, chi vive solo lo sa, non si mutuano pensieri elevati: si comunicano esperienze e identità. Nel non detto, se si parla la stessa lingua.  

Male - Ben prima di Eichmann Hannah Arendt era stata colpita dall’ordinarietà del male. Nello stesso suo amore indefettibile per Heidegger probabilmente: un amore intellettuale, certo, verso un incantatore di vergini, ma anche sensuale e perfino bestiale. Già di Rahel Varnhagen diceva: “Lei è un esempio dell’amore nella sua forma più banale”. Ma lei, Hannah, più di Rahel ha cavalcato appassionata tutti i fossi e le miserabili barriere, degli appuntamenti disattesi, della viltà del suo uomo e maestro, della riduzione inequivoca a oggetto. Sarà stata la sola walchiria di tutta la storia del nazismo, il Leandro della trama d’amore della nuova umanità, di uomini deboli – anche nel bene: di una debolezza che è però resistente.

È vero che il male è banale, alla portata degli scemi. Il filosofo e scrittore Friedrich Hielscher, rilasciato dopo la tortura, benché nazionalrivoluzionario e tutto, amico di Ernst Jünger, animatore dell’Ahnenerbe di Goebbels, caduto in disgrazia per aver promosso un sistema “tribale frazionato” medievale contro la modernizzazione di Hitler, trovò i suoi aguzzini seduti alla scrivania dietro le scartoffie. Ma i tedeschi non sono scemi.
Hannah Arendt fa sua la banalità del male di Bernanos in uno strano modo, anche di essere ebrea. In Bernanos angoscia: che il male sia comune fa paura. In lei è quasi una difesa, tra la chiamata di correo che allevia la colpa e la banalizzazione del reato. Ciò nasce dal fatto che Eichmann è niente, un contabile – e che molti capi delle Comunità ebraiche lo erano: Eugenio Zolli, il rabbino di Roma che si battezzò, ne dà attestato straziante, di vanità e superficialità. Per il fascino del numero, che anch’esso fa tedeschi gli ebrei. Mentre l’Olocausto è storia di mille storie, di milioni di storie, di bambini strappati alla famiglia, di uomini e donne strappati alle case, uno per volta, con schieramento di carri, moto, mitra, cani, con frastuono di urla, latrati, invocazioni, lacrime, mancamenti, alle luci dell’alba o nelle tenebre della notte, assalti ripetuti migliaia, milioni di volte, per settimane, mesi, anni, rinnovati a ogni campo di smistamento, a ogni stazione ferroviaria, a ogni campo di sterminio, a ogni appello nel campo, la mattina, la sera, la notte. È questo l’orrore, che tutta questa sofferenza si lascia cancellare da numeri, regolamenti, organizzazioni, percentuali.
Esibire, come si fa negli ex lager, i diagrammi e i calcoli costi\benefici alla Mengele, tante proteine tante giornate di lavoro, disattiva la terribilità del male, lo rende banale e quasi innocuo.

Hannah Arendt visse gli ultimi giorni della guerra, e la verità dei campi, sgomenta per la distruzione della patria tedesca, contro l’esaltazione dei vincitori e il morgenthavismo, la riduzione della Germania a campo sterile. È su questo sentimento che codificò il totalitarismo, la nuova categoria politica dopo la classificazione di Platone. Che è anzitutto un atto di fede.
Il nazismo fa per questo antieuropeo: “L’umanesimo, la cultura europea, lungi dall’essere alle origini del nazismo, vi era così poco preparata, così come a ogni altra forma di totalitarismo, che per capirlo e tentare di venirne a capo, né il suo vocabolario concettuale né le sue metafore tradizionali possono servire”. E il male banale, ordinario. Per la compassione, se non l’amore, per la Germania. O il disprezzo. O tutt’e due, un atto d’amore disperato, con rabbia. E voglia di credere: il male radicale può non essere banale.
Ma è vero che l’ideologia conta poco nel totalitarismo. Conta in democrazia, dove provoca danni. Nei regimi distruttivi la distruzione conta più delle idee: avesse Hitler eliminato tutti gli ebrei, non per questo la sua politica di annientamento si sarebbe fermata.

Nascere – “Non essere nati è una maledizione”. Il pazzo savio di Paul Auster in “La città di vetro”, il primo racconto della “Trilogia di New York”., ha un’altra veduta, non convenzionale, della questione: il non nato è “condannato a vivere fuori del tempo, dove non c’è giorno né notte”. E senza “neppure la possibilità di morire”.

Nichilismo - “Tu ti credi un nulla, ed è in te che risiede il mondo”, Avicenna.

Tucidide - Traditori di tutti, “La guerra del Peloponneso”  sembra Scerbanenco. L’atto di nascita dell’Occidente, della storia, la politica, la retorica, i diritti, è un seguito di guerre tribali, astiose, spietate, e di tradimenti senza fine.
La differenza con l’Africa odierna è che ad Atene si scriveva, Tucidide sa scrivere. A parte il dialogo fra gli ateniesi e i melii, assurto a chiave dell’opera, e della sapienza politica dell’Occidente, da Atene a Washington, ma sembra alla Campanile.
Tutti tradiscono tutti, a Sparta come a Atene. Tucidide, ateniese e democratico, parteggia per Sparta, surrettiziamente.
Una democrazia, quella di Atene, che non aveva amici, né estimatori, solo schiavi e sudditi ribelli. Alcibiade, che tutto perse, Tucidide invece fa “bello-e-buono”, solo troppo ricco – se lo buggerava?
Tucidide è perfido. Anche se non si capisce come mai gli spartani, che sconfiggono sempre Atene, non vincono mai: erano ritardati? E alle somme fa combattersi in tanti, fra isole, città, paesi, che la popolazione attuale, tre milioni di greci maschi tra i 15 e i 60 anni, non sarebbe bastata. Il tradimento moltiplica le orecchie, se non le menti e le braccia?

Verità – “News gratis? La verità costa”, titolo di giornale. A parte la pretesa che la news sia la verità – normalmente è tutto l’opposto, la news comunque la fabbrica – perché la verità costerebbe? Perché è quella “scientifica”, di scienza applicata, milionaria.


zeulig@antiit.eu

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