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lunedì 18 marzo 2019

Amore e alcol, le pene dello scrittore Usa

“In vita mia ne ho viste di cose. Una volta stavo andando a casa d mia madre per fermarmi qualche giorno, ma appena misi il piede sull’ultimo scalino, do un’occhiata e le vedo che stava sul divano a sbaciucchiarsi con un tizio. Era estate, la porta era aperta e il televisore a colori acceso.  Mia madre ha sessantacinque ani e si sente sola”. Racconti di caccia e pesca, tra ami e fucili. Di case roulette. E di alcol e solitudine. Nello stesso racconto della mamma, “lontano, un altro uomo cresce i miei figli, e va a letto con la moglie, la mia moglie”.
Carver ha volto questa antologia di saggi, poesie e racconti quando infine ebbe successo, nel 1984, con “Cattedrale”. L’alcol è l’unica concessione alla bio standard, ma in questo caso non senza motivo. Non l’unica, c’è anche il solito “Mestiere di scrivere”, inevitabile in America dove da sempre scrivere è materia d’insegnamento. Ma con la pretesa di non fare autobiografismo.
“Non sono uno scrittore autobiografico” proclama subito  – l’ultimo? E “minimale”, genere di cui la critica lo ha eletto eponimo? Neanche. Forse perché “non possiedo il tipo di memoria capace di far rivivere intere conversazioni, complete di tutti  gesti, tutte le sfumature del discorso reale; e non posso neanche ricordare l’arredamento di alcuna delle stanze nelle quali ho passato del tempo….”.
Un autore minimalista senza dubbio, che si diminuisce, e per questo amabile. Nonché autobiografico, uno dei primi se non il primo, che qui comincia col racconto del padre, e continua con quello di sé. Ma non per questo meno amabile: non è bugiardo, è diminutivo. Disteso, gli short cuts per cui è famoso li ha riposti, il fraseggio è semplice, grammaticale.
Il come fare dice di avere appreso da Flannery O’Connor. Di cominmciare: da una frase, un’immagine, un personaggio, una cosa. Senza uno schema prestabilito. Che non sembra una buona ricetta, mettersi a scrivere senza sapere cosa si vuole dire. Ma anche questo confluisce alla gradevolezza del personaggio, oltre che dello scrittore. L’altra influenza rivendicata è del professore di scrittura, quando Carver è infine riuscito a frequentarne una, secondaria, John Gardner,  di cui scrive un lungo ricordo, scrittore sfortunato ma ottimo insegnante e editore. Oltre che – come è consueto per gli scrittori americani degli anni 1950-1960, di Gordon Lish, mitico caporedattore per la letteratura a “Esquire”, mensile per soli uomini.
Il ritratto di Gardner completa il memoir. Segue una scelta di poesie prosastiche, minimalissime. Con alcuni racconti inediti in volume, tra cui quello della madre con l’amichetto. Tutti peraltro in vario modo del genere selfie. “Voi non sapete che cos’è l’amore” è una lunga serata in poesia con Charles Bukowsky. Della comune dipedendenza – e prosa? – dall’alcol.
Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente” è l’altro tema del composito memoir. Lettore compulsivo e disordinato ma ignorante. Lui e la moglie, due ragazzi ignoranti di famiglie ignoranti, che avrebbero voluto fare il liceo ma si disperdono in mestierucoli, anche perché hanno già fatto due figli. Mestierucoli veri, non quelli con cui usa infiocchettare le bio americane delle persone illustri. A vent’anni senze scuola, senza mestiere, senza casa, e con due figli. Alla moglie è dedicato “Le pietre azzurre”, il racconto in versi di Flaubert che scrive una scena d’amore tra Emma e Rodolphe masturbandosi – che spiega la cosa camminando sulla spiaggia al suo “amico chiacchierone Ed Goncourt, mentre si godono “un sigaro e una bella veduta di Jersey”: “L’amore non c’entra per niente”. Lo scrittore Americano è (solitamente) iperletterato.
Raymond Carver, Voi non sapete cose’è l’amore, minimum fax, remainders, pp.345 € 7,50

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