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venerdì 20 settembre 2019

Felicità è ripetizione – dirsela

Brevi prose raccolte dallo stesso Walser nel 1917. Semplici, per lo più su aneddoti inconsistenti. Divagazioni, lievi. Parte della sterminata produzione di testi brevi di Walser, frammenti o racconti. Nulla al confronto con la coeva “La passeggiata”. Ma dotate di quella certa felicità espositiva, qui più accentuata che altrove, che consiste nell’iterazione, specie delle forme predicative, di attributi più che di apposizioni. Procedimento di solito insignificante e faticoso, di cui Robert Walser però è maestro – se ne può dire la sua unica cifra, insieme con la felicità di essere, in tono minore.
“La bella addormentata nel bosco”, dove niente succede, ne è esemplare: due paginette di nient’altro. Accentuazioni ternarie - il canone che Ciryl Connolly stabilirà in “Enemies of Promise” (tradotto “I nemici dei giovani”), come affermativo dell’uomo di mondo: sì, è così, è proprio così… Oppure binarie, alternative o di opposizione (“versi sottili o sgrossati male”), oppure comparative-superlative (“fronte serena e coraggiosa”, “membra rapide e agili”).
Sono prose di paese, del periodo passato a Bienne, in Svizzera, dove era nato – lo stesso dove farà “La passeggiata”. Più che altrove, nei 25 pezzi di questa “vita di poeta” Walser si vuole vagabondo eccentrico in paese. Il paese normalmente pressa e incombe e non lascia spazi, lui invece è felicemente ignorato, se non per qualche sguardo stranito-ammirato. E si dice felice, felice, felice.
L’“uomo inutile”, o fannullone di Eichendorff  - qui evocato per il “chiaro di luna” - in carne e ossa, ma senza residui. Che di sé in città, a Wurzburg, dice: “Fatti i conti, un personaggio interamente inutile, senza scopo, senza sostegno, senza responsabilità, e quindi superfluo? Eh sì”. Calasso lo vuole nel risvolto piuttosto il Lenz di Büchner, ma ne è l’esatto opposto.

Raccapriccia che queste prose siano state scritte e riprese nella Grande Guerra, di Walser dando una forma di autismo: una vita fuori dal mondo. Poi Walser verrà, probabilmente d’arbitrio, rinchiuso in manicomio per venticinque anni, fino alla morte nel 1956, ma se c’era una componente anomala nella sua psiche non era la schizofrenia che gli fu in quattro e quattr’otto diagnosticata, ma l‘autismo – incapace di rapportarsi anche alla sorella, che è quella che ne dispose l’internamento. La natura dice in “Vita estiva” “buona, amabile e dolce” mentre le sue creature “quanto sono dure”. Il suo unico amore Marie, nel racconto omonimo, che incontra nel bosco, si ritrae così, subito dopo l’infanzia: “A poco a poco tutto quelo che vedevo e sentivo si è messo a sembrarmi freddo, incomprensibile e meschino. Non ho mai capito ciò che la gente chiama vita. Le lamentele e le risatine degli uomini mi sono divenute sempre più estranee, sempe priù incomprensibili. Non mi ritrovavo nelle loro gioie senza durata; ero incapace di comprendere i loro dolori. Ero tranquilla e calma. Né l’agitazione né la paura mi toccano. Mai ho avuto paura di checchessia”. 
Robert Walser, Vita di poeta, Adelphi, pp. 145 € 15

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