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venerdì 17 settembre 2021

L'aborto clandestino

Ernaux non è menzionata nel premio di Venezia quest’anno, il Leone doro, al film che ne è stato tratto, se non da ultimo, nei titoli di coda, come autrice del racconto da cui è stato tratto il film. Ma il racconto dell’aborto cui si è sottoposta a gennaio del 1964, dunque tra i 23 e i 24 anni, ancora studente di Lettere a Rouen, impegnata a una tesi sulle donne nella poesia surrealista, cioè in Éluard, Breton e Aragon, per una gravidanza esito di un rapporto con uno studente già lontano e mezzo dimenticato, svolge come una sceneggiatura. Volutamente piatta sulla pagina, senza culmini, drammi, pericoli. Come testimonianza di una pratica pericolosa e avvilente, quando l’aborto era un reato, non come un damma personale – questo, per la verità, colpisce il lettore, la mancanza, o quasi, di tensioni personali.  
L’evento è raccontato passo passo: niente mestruazioni, nausee, i complimenti del ginecologo, “lei è incinta di un mese e mezzo, i figli dell’amore sono sempe i più belli”, la decisione di abortire senza mai un dubbio, una inconrgua settimana bianca nel mezzo, incinta di due mesi e mezzo, con l’amico già lontano, il tentativo con i ferri da uncinetto, come trovare una mammana, la mammana, un aborto non riuscito, uno riuscito, intanto siamo a tre mesi e mezzo, il feto penzolante “con una grossa testa, sotto le palpebre trasparenti gli occhi fanno due macchie blu”, ha anche un minuscolo sesso, la placenta tagliata male, l’emorragia, l’ospedale.
Un dramma, si pensa, ma che non avrebbe lasciato traccia – il lettore è portato a simpatizzare col feto e antipatizzare con l’autrice sconsiderata, ma non è questo evidentemente lo scopo del racconto. Ernaux lo ricostruisce tardi nel 2000, uscendo da un consultorio Aids dove la trovano “negativa”, malgrado le indisposizioni seguite a un rapporto (a sessant’anni…) senza preservativo con un amico venuto da Roma. Un racconto che decide di fare per ribadire che l’aborto non può essere illegale, basandosi su scarsi ricordi e qualche appunto di diario, non più di due o tre righe. Un’esperienza che non avrebbe lasciato traccia, né morale né fisica. Lo stesso anno dell’aborto Ernaux si sposa, e avrà due figli. Sei anni più tardi scrive su “Le Monde” di problemi e cause femministe. Dieci anni più tardi è già autrice di un primo romanzo, apprezzato - è “Gli armadi vuoti”: il romanzo d’esordio racconta già questa storia: Ernaux riscrive molto.
Un testimonianza, il più possibile “oggettiva”, disincarnata. Di quando l’aborto era proibito per legge, e materia di levatrici, nei casi migliori, in segreto, a rischio setticemia e emorragia. “Scrivere la vita” è la sua scrittura, si dice Annie Ernaux a presentazione del volumone “Quarto” Gallimard che ne raccoglie le narrazioni. Non un compito che si è dato, ma una maniera d’essere e di raccontare: il mondo, attraverso la sua esperienza.
Annie Ernaux, L’evento, L’orma, pp. 128 € 15

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