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venerdì 24 febbraio 2017

La festa delle radici, pirotecnica

Un ritorno alle radici. Succede a molti, per un fatto anagrafico, per i casi della vita, prima o poi è inevitabile. Per nascita, memorie d’infanzia, fatti straordinari. In un misto sempre di rifiuto e di nostalgia: i luoghi non ci abbandonano, e De Luca non oppone resistenza. Il suo Campodimele è l’hortus deliciarum dei vecchi abati, e badesse, del tempo della santità diffusa, che si beavano anche di vermi, rospi e serpenti.
Se dicessimo di che si bea De Luca in questi cinque racconti, il lettore potrebbe deludersi in partenza.  Le proprietà provvidenziali dello scalogno a Toronto, Ontario, Canada. Il “Grognardo” del titolo, tale il nome: un reducista, lui poi dalla Russia, petomane, commensale di ogni convivio. Niente sorprese. O sì: in “Ciammotte” le lumache del titolo sono  testimoni ininteressate di un brusco amplesso sul prato sotto “un’acquicella fina fina”. Ma niente di trasgressivo. Segue la frittata dei tagni verdognola – senza uova (povera). E un funerale tra i mandorli fioriti, che si popola di poesia vicina e lontana: Libero (De Libero), il Picano (Landolfi, di Pico Farnese), “Hansel e Gretel” filastroccata, nei profumi di una cucina sempre imbandita, anche nelle ore morte – una celebrazione familiare.
I contorni non sono di più. Con lo scalogno viene il “mitico” concerto che il 15 maggio 1953 alla Massey Hall di Toronto tennero Dizzy Gillespie, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell e Max Roach, nientedimeno, tutti insieme all’insegna del “Salt Peanuts”, il “Satpìnatz” del titolo - il brano che aveva creato Gillespie dieci anni prima alla Minton’s Playhouse di New York, dove i cinque si venivano consacrando nel be-bop. Il trionfo del “Maggio” a Pastena, festa dendrica e sacrificale, del bovino in sostituzione dell’umano, e del divino, col Cristo disceso dalla Croce. O il Sant’Arcangelo Michele a Vallearsa, festa di battaglie e di vittorie la domenica dopo. I fuochi d’artificio a Campodimele.
La scena è la Ciociaria, che De Luca prolunga fino a Terracina, che Weber, ricorda, ha immortalato all’opera, “Fra Diavolo ou l’Hôtellerie de Terracine”, e anzi fino a Gaeta. Ma non quella da sagra, anche se un po’ di Nino Manfredi c’è nella prosa di De Luca, di umorismo freddo. Dello scemo del paese, il “cannoniere” che se le fece tutte in Russia, abbiamo già detto, narratore epico di se stesso, ripetitivo – l’epica dev’essere ripetitiva, non ci si pensa, sempre uguale a se stessa. In “Ciammotte” fa capolino nella valle Giulia Gonzaga, la bellezza del primo Cinquecento, contessa Colonna di Fondi, che innamorò da Ariosto fino a Croce, oltre che Valdès, l’eretico. Non molto si più.   
Scene di vita ordinaria, insomma, anzi il triviale del banale. Racconti poveri. Ma volutamente poveri, con un che di sfida: non al vissuto, alla narrazione stessa. Pretesti lievi all’uzzolo della narrazione. Un filo narrativo sottile aleggia, anche a godimento del lettore, in qualche modo esplicito cioè, ma che De Luca non chiarisce, anzi lascia sospeso. Al modo musicale di “Saltpìnatz”, del be-bop – o a quello classico della “folia”, delle variazioni libere che oscurano il tema. Non proprio una sfida, all’autore non conviene. Prove, piuttosto, esercitazioni. Una promessa implicita. Se la sua piccola umanità lascia “a una ventura immaginata, stantia e muffita, e più che altro ferma”. Pausa. “Tendente grossomodo all’infinito”. Nell’attesa, il “piacere del testo”. Il più infatti resta da dire.
Leggiamo infatti con sorpresa crescente. Un fenomenismo spontaneo. Le parole come materia. La narrazione fratta nel flusso di coscienza, l’artificio massimo del narratore che si confonde con le sue creature. Agrammaticale come è ogni sensazione e memoria, per lampi. Anacoluti. Metonimie. La parte per il tutto. L’attributo frequente, connotativo. Senza sforzo, non apparente, solo una felicità inventiva, come spontanea – l’ordito, di mestiere e applicazione, non si mostra. Per il lettore una sorpresa, ma anche uno stimolo: una sollecitazione all’esercizio della mente, contro l’alzheimer cui il Millennio lo sta avvezzando.
Con le sue smilze ultime proposte, “Caro Dio” due anni fa  e questo “Grognardo”, De Luca si vuole un scrittore avulso dal secolo, dal Millennio globalizzato. I suoi lari, quelli che richiama, sono Belli e Zanazzo, la satira romanesca. La trama è, non inconsciamente, gaddiana, con derive in Pizzuto. Che non vuole dire nulla per il lettore, è solo godimento, ma per lo scrittore sì. Ne moltiplicano le radici. Filologiche, derivate dagli studi. E generazionali, le letture di formazione riconducendosi al secondo Novecento. Senza il nulla, esistenziale o metafisico, che s’indovina sotto l’Ingegnere, e lo stesso operosissimo Pizzuto - De Luca non “erige le parole tra sé e il vuoto”, l’anamnesi corrente di Gadda.
Le radici fanno la differenza. È il senso kierkegaardiano del vuoto (nulla) che le parole riempiono e insieme esibiscono. La parola corre libera, quasi inseguita più che elaborata dal parlatore, attorno a un “possesso impossibile”. Che è più di un ossimoro: è una condizione, a volte dolorosa – in Gadda per esempio. De Luca la riempie modestamente, della familiarità, le amicizie, la convivialità, lo stesso odiosamato folklore paesano. Affettuosamente ironico, quindi, e non sarcastico, ma ridendone poi al modo di Gadda. Nella pirotecnia di rinvenimenti e neoformazioni. Per il piacere verbale, del sonoro della parola oltre che del significato. Per il gusto del barocco in similoro – dell’accrescitivo, dell’ornato. Nella narrazione tangenziale, per punti di vista che sono punti di fuga, digressivi e anamorfici. Per le invenzioni, lessicali, grammaticali. Che nell’Ingegnere si legano al barocco placcato dell’amato Manzoni del romanzo, finto Seicento, in De Luca all’anarchia-cornucopia verbale e grammaticale. All’abbondanza – la feracità di cui Campodimele pur nell’indigenza è fattoria, magazzino e trovarobato. Alla “tradizione sperimentale” anche.
Una scrittura scandita da molte letture, da Ingrao poeta all’inevitabile Edgar Lee Masters dei funerali - ma in originale. O a Byron, “Il giaurro, frammenti di novella turca”, 1818, tradotto da Pellegrino Rossi, il carrarino dalle mille vite che avrebbe salvato l’Italia col suo progetto di federazione, italiana ed europea, ma fu sacrificato trent’anni dopo, a coltellate, alla Repubblica Romana - e\o al Piemonte. Scampoli di grandi mondi, di riverenze miste al sorriso. Racconti di note - come Gadda ambiva - con molte finestre: rimandi, aperture, fughe. Mistilingue, nella migliore tradizione del Novecento - Gadda di nuovo. Che il Millennio globale trascura – per un globalismo  uniforme, che cancella la diversità, il molteplice, l’esotico dei più (appiattisce e non sbalza)? Le  parole come ossessione, come è stato detto di Pizzuto. Ma una lingua di suoni e colori, vibrante di sensi. Non giornalistica come usa, insomma, né anestetizzata dalla regola, la scrittura delle scuole di scrittura. E non selvaggia da “franco narratore” come usava dire. Anzi colta, perfino dotta. Di stilemi non solo, anche di riferimenti, a ogni passo: il tuziorismo, Fillide, la romana Carístia, o Cara Cognatio, festa della famiglia…
Una scrittura preziosa. È la deriva dell’inedito, oltre che la tentazione del linguista – dello scrittore di scritture: tanto vale scrivere per il godimento proprio, e degli happy few. Potendo peraltro fruire di un fondo linguistico straordinario. Di capacità verbale sconfinata: inventiva e radicata, sapiente e sapida. La tentazione dello sperimentalista è di approssimare l’indicibile. Di sfida a se stesso prima che al lettore, ma facendo luce nella giungla dell’inesplorato. La lingua non è una giungla, è anzi lineare, di parole allineate, che però si possono variamente combinare, anche forzandole fuori dall’orinario: allungare, restringere, piallare, sbalzare. De Luca ne ha il genio. Ha quello che i romani chiamavano stilum, la punta che incideva le tavolette: la costruzione snoda e annoda come geroglifico. A puntasecca.
De Luca comincia in queste prove dove Pizzuto, e forse già Gadda, avevano finito: nell’asintassi e l’agrammatica. Nell’eloquio paffuto, grasso, iperbolico dell’Ingegnere, nelle sue architetture a volute piuttosto che geometriche, e nel racconto di note, digressivo. Con Pizzuto si entra nella tebaide della stilistica: l’anacoluto tipico del parlato, che procede più volentieri per asindeto. E altre figure classificate, anche se di uso non impervio alla lettura, da letterato di formazione: la metonimia, la sineddoche, l’interiezione apocopata, più spesso locale - corretta volentieri, munendola di senso specifico intraducibile, in idiotismo: le note sono un racconto a parte. Molte anastrofi. Ma l’elenco sarebbe lungo, il lettore può apprezzarne il risultato senza rifarsi ai codici. Il procedimento preferito è l’ipotiposi. Con protesi instancabili. De Luca è – non si vuole ma è – un narratore diverso, lontano dal corrente, la rara avis. Pur volendosi semplice: un narratore di cui la lingua è il trickster, l’innesco e la materia, e insieme anche l’estraniazione, qui nella forma dell’ironia, gentile.
Con Gadda si direbbe un’immedesimazione: nelle tematiche trite, una sfida al plot, e nella libertà lessicale. Di una neo lingua continuamente reinventata, e felice - “spontanea” e non artificiosa. La prosa è a ogni rigo di strafottenza gaddiana: accrescitiva, moltiplicativa, decostruttiva.  A Pizzuto accostandosi per quest’ultimo aspetto, la decostruzione quasi di programma, ai limiti del linguaggio stesso, la significanza disperdendo e moltiplicando nei gorghi nell’asintassi. Mimando il parlato, ma è un’apparenza: la costruzione è forte. Un arroccamento che si può prendere dal basso. Come se De Luca volesse dire, come buona metà del secondo Novecento: finora abbiamo parlato col vernacolo toscano, ora scriviamo con tutti i vernacoli. Ma è di derivazione filologica. Corretta, molto, prima dell’illeggibilità. La sua lingua è pur sempre un italiano e non un vernacolo, nemmeno un dialetto: è un altro italiano, più aperto e ricco. Nel vocabolario e nella grammatica, anche nella sintassi.
Fu lo scrittore siciliano promosso a questore che meglio mise a frutto la “rivoluzione della lingua” del Gruppo 63 che si è appena finito di celebrare – più che gli scrittori del Gruppo: Balestrini, Celati, Lombardi, Guglielmi, lo stesso Arbasino che ne era stato il profeta. L’imperativo di mezzo secolo fa è più che mai attuale. Ma i riferimenti si propongono a orientamento del lettore, l’esito è tutto De Luca e tutto nuovo. Non calchi o pastiches, di cui si dilettava l’Ingegnere e, a suo modo, anche il Questore, non prose dissolventi. Ma un verbalismo frenetico, quasi incontinente, più ambizioso dei referenti. Esercitandosi su storie, memorie e persone labili fino al rischio appiattimento - cancellazione, anonimato. La narrazione è della lingua stessa. Coerente come deve essere ogni lingua, ma sconfinata: una narrazione oltre i confini. In senso proprio: dal vernacolo a Lee Masters, dal dantesco al manzoniano, al mistilinguismo, al be-bop (sincopato, tematico). Una scrittura da glottologo, ma movimentata. Una pantomima verbale, un Dario Fo prima maniera, senza l’enfasi – ripetitiva, retorica.
Detto tutto quello che è da dire dell’Autore, le storie ci sono. La festa degli Zagarella nel racconto dei tagni, “La frittata”, è quasi balzacchiana. “Ciammotte” è un esito invidiabile per tutta la scienza  redazionale del best-seller, che vi si cimenta leoninamente ma senza effetti apprezzabili. Detto anche questo, i personaggi e le storie di De Luca restano le parole. Da degustare più che da sfogliare, un surplace proponendo più che una corsa al finale.
Emanuele De Luca, Grognardo li Taverni e gl’altri conti da Campodimele, Quattropassi libri, pp.146, ill., cd musicale, s.i.p.

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