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sabato 13 luglio 2019

Questo Puccini sembra Bernstein

Un nuovo allestimento, un grande impegno della Fondazione Puccini, con interni e costumi tradizionali – sostituiti nell’ultimo atto, del tentativo di fuga, del tentativo di linciaggio, e poi della liberazione, di Minnie e dell’amato Johnson, da un bosco di gigantesche sequoia - del regista Renzo Giaccheri. Un ottimo cast, specie in due dei ruoli principali, Maria Guleghina e Alejandro Roy. Un’ottima orchestra , la Regionale Toscana, concertata e diretta da Alberto Veronesi – che presiede anche la Findazione. E una musica, per molti tratti di questa poco amata e poco eseguita “Fanciulla”, che anticipa sonorità di Gershwin e, di più, di Bernstein sinfonista mezzo secolo dopo – a quanto si può arguire dall’inacustica platea all’aperto del festival (una platea piatta, forse disegnata per i concertoni pop, serviti da grandi casse acustiche).
Puccini sempre più ha bisogno di essere liberato della patina verista che lo imbozzola - come un Mascagni, un Leoncavallo: il verismo non è più la chiave, in questa “Fanciulla”. O forse non lo è mai stata, una categoria provincial:  Puccini spazia dal Giappone agli Stati Uniti, non da lettore di favole, viagga negli spazi musicali “altri”. Qui assimila timbri e ritmi americani, jazzistici – ma non più bandistici, stile New Orleans. Era curioso di altri mondi e altri moduli. L’opera scrisse dopo un prolungato soggiorno in America. Su un dramma del maggiore autore di teatro e impresario di Broadway nel primo quarto del Novecento, David Belasco, ex bambino prodigio. Il cui impianto molto americano Puccini tiene vivo, malgrado i birignao dei librettisti, Guelfo Civinini e Carlo Zangarini.
Questa “Fanciulla del West” aprì in prima mondiale la stagione del Metropolitan di New York il 10 dicembre 1910. Diretta da Toscanini, Con grande successo. Forse la mancata Puccini Renaissance è solo una questione di provincialismo: l’Italia non sa pensarsi altro che bozzettistica, e un po’ ignorante, anche insensibile alle novità. 
Singolare è il tentativo di fare il western prima del western, del genere cinematografico. La Minnie all’opera – di Puccini? dei librettisti? – è una virago con la pistola in pugno. Ma qui con una aporia. Belasco metteva in scena una Minnie colta, in grado di disquisire con l’allora giovane fidanzato Johnson, studente all’università, di Dante. E soprattutto femminile e dolce: sogna un amore per sempre, sogna come sarà il suo primo bacio, e benché viva in mezzo agli uomini, ne è la loro guida spirituale: legge per loro la Bibbia, dà i consigli giusti. Una eroina del primo Puccini, si direbbe. Quale poi sarà anche qui nel finale, quando Johnson rischia la morte e lei lo salva: rispettata dai cercatori d’oro nel suo piccolo saloon per la mitezza e la generosità. Per Puccini invece brandisce la pistola. Con una incongruenza ineliminabile nel finale, quando si oppone al linciaggio argomentando: “Non vi fu mai chi disse\ «Basta!» quando per voi\ davo i miei giovani anni…” Che s’immagina uno?  
Giacomo Puccini, La Fanciulla del West, Puccini Festival, Torre del Lago

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