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domenica 30 luglio 2017

La vita sotto i ponti

Il genere è il picaresco contemporaneo. Un romanzo della marginalità, dei rifiuti della vita. Che la vita ha rifiutato o la vita hanno rifiutato, proteggendosi nell’isolamento, con l’anonimato. Fra tutti gli “Strega” probabilmente il più solido. Troppo?
Nucci parte di fretta. Un avvio allitterante, di sibilanti sorde rafforzate: “canneti smossi”e file di pini “si scoprono, macchie di rovi indistinti, macchie scure… mentre pennacchi smorti… a tratti spinti da un soffio o uno sbuffo di brezza… s’irrobustivano e parevano scintillare”. L’allitterazione piace a Nucci: “la limpida lontana ineffabile luce” apre il capitolo “Come un lampo”. Su di essa costruisce il romanzo della vita sotto i ponti, attorno a un “amico di tutti senza speranza”: abbandoni, rifiuti, malattie, morti. Ma alla partenza suona come volersi sgravare di un peso indigesto: bisogna scrivere il secondo romanzo, e scriviamolo.
Molte carte l’autore dispone. Il romanzo vuole dei “non luoghi” e delle “non persone”. Alla Victor Hugo ma senza il “popolare”. Con una prima, ragionata, reazione alle frasi fatte del femminismo – la “retorica femminea”. Compresa la consecutio lamentosa cui lo strizzacervelli abilita, inevitabilmente accusatoria. E malgrado il colorismo verbale, tre o quattro dimenticati fa emergere. In una Roma – è pur sempre Roma – umida, gravida di piogge, canali, rogge, liquami, lungo un fiume già stagnante nel delta.
Nella cinquina dello Strega Nucci brilla di luce durevole: sa il “valore” della scrittura. Ma questa storia di vita sotto i ponti apre porte invece di chiuderne. Una coppia scoppia e non sappiamo perché – mentre una bambina, molto amata, muore rifiutata dalla mamma, e questo non è possibile. Gli zingari non sono simpatici: la polizia li controlla, i campi sono abietti, ma loro trafficano droga e prostituzione, rubano, e impongono la protezione. Gli ultimi pescatori di anguille neppure – uno dei due è spacciatore in grosso. Non c’è redenzione, ma non c’è nemmeno luce tra le pieghe.
Si potrebbe dire il romanzo una celebrazione di Tor di Valle, il cui architetto “immortale” Julio Lafuente ricorre più volte. Proprio là dove deve sorgere lo stadio dell’amata As Roma, la squadra di calcio. Ma sarebbe troppo anche per Freud. E allora? Alla fine Nucci lo dice anche: “Il 3 maggio 2009 Pietro Romanelli mi invitò a mangiare in una chiatta sul Tevere all’estremità occidentale di Roma”, che quello stesso giorno decise sarebbe stato l’ambiente del suo secondo romanzo – “il romanzo che avrei scritto appena possibile, per raccontare una storia che ancora non conoscevo”.
Non si sa che dire di un romanzo fluviale, in senso proprio e in senso figurato. Col vezzo di smazzare le carte del racconto alla Saporta. Per tenere sveglio il lettore, certo, ma con una certa fatica: tra il prima e il dopo, il chi è della storia, il soggetto e l’oggetto, e quale storia stiamo leggendo. Nucci non ne abusa, siamo solo a tre o quattro narrazioni, e a due soli stili tipografici – non al confronto dell’ultimo Eco, per dire, che era arrivato a cinque o sei, e quattro font. Ma non risolve. Non ha neanche una fine. Parmenide, che ricorre a due terzi del libro, non sarebbe stato contento. Figurine corpose s’intravedono, ma nell’umidiccio – non c’è più la cura editoriale di una volta?
Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie, pp. 366 € 18

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