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giovedì 18 febbraio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (449)

Giuseppe Leuzzi

Si tiene a Lamezia uno dei maxi processi del Procuratore Gratteri: 325 imputati – altri 91 hanno scelto il rito abbreviato. In un’aula bu nker appositamente realizzata, in cinque mesi, per cinque milioni. Mentre a Palmi, dove si giudicano le mafie della Piana di Gioia Tauro, la giudice Concetta Epifanio, riferisce Giuseppe Smorto sul “Venerdì di Repubblica”, si lamenta: “Tempesto il ministero di chiamate, non mi rispondono nemmeno. Teniamo i faldoni in stanze dove piove, facciamo le udienze col cappotto”.

Un altro giudice di Palmi, Antonio Salvati, “da vent’anni in Calabria,”, nota sempre Smorto, “si lascia andare in un forum con le associazioni di volontariato: «L’aula del maxiprocesso  di Lamezia è stata messa su in cinque mesi: per l’ospedale di Palmi il piano è partito tredici anni fa,  e siamo ancora al punto di partenza»”. Al netto della tragicommedia dei commissari risanatori della Sanita infetta in Calabria.

Commentando la figura controversa di Leopoldo III re dei Belgi, prima a capo della Resistenza all’invasione tedesca, poi in qualche modo collaboratore, benché prigioniero, durante l’Occupazione, Curchill scrisse a fine guerra: “Leopoldo è come i Borboni, non ha imparato niente e ha dimenticato tutto”.

L’indotto della mafia
Nelle celebrazioni di Sciascia per i cento anni dalla nascita riaffiorano le sue critiche al maxiprocesso, al primo, quello di Falcone, specie all’uso dei “pentiti”. Ma quel maxiprocesso ha stroncato la mafia. Prova ne sono le terribili stragi successive, e la fine dei corleonesi sanguinari – Messina Denaro compreso che fa da trent’anni, dei suoi sessanta, la vita del sorcio – i colpi di coda sono distruttivi per essere disperati.
A Roma si arresta una banda di narcotrafficanti, una trentina di persone, attiva nelle periferie Est e Ovest della capitale e nell’agro romano a Nord. Capeggiata da uno di Sinopoli, dice il giornale,  “considerato affiliato a Roma del clan Alvaro”. Che imperversa da almeno i primi anni 1960, quindi da sessant’anni.
Lo stesso il loro socio nel narcotraffico a Roma Nord, Antonio Pelle, “capo dell’omonima cosca di San Luca, sempre nel reggino” – come Sinopoli.
Lo stesso, si può aggiungere, del clan Grande Aracri, dell’area jonica, cosentino-crotonese, che il Procuratore di Catanzaro Gratteri persegue con retate gigantesche, di centinaia di persone alla volta – per i quali un maxiprocesso è in corso a Lamezia con poco meno di 400 imputati. Apparentemente senza effetto, se gli arresti in massa si susseguono.
Il problema  non è il maxi ma la qualità delle indagini. Specie se si basano sui pentiti, testimoni di comodo. Una terza grande famiglia di mafia, i Pesce di Rosarno, sono usciti dalle cronache dopo decenni per il ravvedimento di una delle donne di famiglia, una figlia. Basta poco per una vera azione di contrasto alle mafie, e non di luminarie per i media, e per le carriere.
Gli Alvaro, dopo avere stroncato con i taglieggiamenti impuniti ogni imprenditoria nel loro paese e nel vicinato, con la droga investono a Roma da almeno vent’anni, dall’acquisto del Café de Paris a Via Veneto. Con lo storico ristorante George’s, sempre a via Veneto, e l’adiacente grande caffè California in via Bissolati. E una miriade di caffè e ristoranti: il Federico I alla Colonna Antonina e un Ristofood in via Tiburtina, il Gran Caffè Cellini in zona Battistini, un Time Out in Valtrompia, verso Guidonia, un bar Clementi in via Gallia-San Giovanni, e il bar Cami a Talenti.
Grande operazione di polizia dieci anni fa, arresti sequestri, contro gli Alvaro. Grandi valutazioni dei sequestri: il Café de Paris, comprato per 250 mila euro, si dice valere 55 milioni (di fatturato? di avviamento? impossibili), il “George’s”, vecchio ristorante che nessuno frequenta, 50 milioni. In tutto un patrimonio, si dice, di 200 milioni.
Pignatone, il Procuratore di Reggio Calabria che ordina l’operazione, si libera infine dell’ingrata sede per l’agognata Procura di Roma.
I beni sequestrati agli Alvaro a Roma al processo sono stati restituiti, non c’è mafia – non agli atti del processo.
Non si colpisce la mafia – non è difficile, basterebbe prendere i mafiosi, subito – per non colpire l’indotto? Comprese le carriere – se finisce la mafia finiscono le carriere?
 
L’Italia a pezzi
Dopo la pandemia, anche i rimedi hanno una distinta caratterizzazione regionale. Più inefficiente al Nord, per stanchezza, incapacità o presunzione.  Già dai provvedimenti differenziati di lockdown. Per lo svago si è imposta l’apertura di caffè e ristoranti, dove si sta al chiuso, a distanza ravvicinata, uno di fronte all’altro, bisogna togliersi la mascherina, e bisogna parlare a voce alta. E non si è consentita al cinema e al teatro, dove bisogna stare zitti, allineati e non  frontali, e sarebbero  posti ideali per respirare con la maschera. Perché? Perché il business dei caffè e ristoranti è dieci o cento volte quello dei cinema e teatri.
La regione Lazio, cioè la burocrazia indolente di Roma, dimostra che si può fare una campagna di vaccinazioni di massa: il sito di prenotazione ha funzionato, l’organizzazione sembra perfino semplice tanto fila liscia, anche senza le “primule” del design milanese, e si poteva benissimo raddoppiare la somministrazione dei vaccini, l’organizzazione è così decentrata ed efficiente che si potevano dimezzare i tempi, cinque minuiti per somministrazione invece di dieci.
In altre regioni si sposta l’obiettivo, per dire invece di fare. Comprare altri vaccini autonomamente – la tentazione dell’appalto prima di tutto? La variante inglese? La sudafricana, la napoletana, l’olandese? Astrazeneca? Negli Usa (del deprecato Trump) la vaccinazione di massa subito, già da metà dicembre, ha subito circoscritto i contagi: i contagi giornalieri sono crollati sotto i 100 mila, la metà del picco di Capodanno.
Non ci sono molte soluzioni. Ma le poche non piacciono. Tutti improvvisati Napoleoni, gli autonominati “governatori” di regione. Quasi tutti imbonitori, specie i leghisti del Nord: Veneto, Lombardia, Piemonte - che infettano la finitima Emilia. Gli stessi che hanno voluto l’Italia a sanità regionale, per meglio lucrare nel ricco settore.
 
Il Sud senza portafoglio
Solo due del Sud, due potentini, Speranza e Lamorgese, fra i ministri del governo Draghi. C’è anche Carfagna, salernitana, ma ha un ministero senza portafoglio, cioè le serve solo per potersi dire ministro - e riguarda il Sud: un luogo senza portafoglio. Oltre Di Maio, titolare di un ministero che non governa.
Alla scomparsa della questione meridionale succede la scomparsa del Sud politico. Quella si poteva ritenere una buona cosa, eliminare la minorità del Sud, se il Sud fosse – fosse stato, ormai sono trent’anni e più dalla scomparsa – ammesso alle politiche economiche nazionali. Senza rete di protezione, ma avesse una giusta quota di investimenti pubblici. Per esempio le strade e autostrade, le ferrovie, la telefonia, in fibra e anche solo col doppino, il wifi.
Il Sud ha avuto due presidenti della Repubblica in successione, Mattarella dopo Napolitano. Come non detto. Napolitano ha nominato senatori a vita, l’eccellenza del Paese, solo dell’estremo Nord: Abbado, Monti, Cattaneo, Rubbia e Piano – Mattarella sobrio ha nominato Liliana Segre.
 
Sicilia
Camilleri, come già Sciascia, rivendica una “amizicizia siciliana”. Ma come un mistero, “un po’ complesso”, che scioglie assimilandola al rapporto fra gemelli, una sorta di immedesimazione. Intuitiva, senza bisogno di parole. “Tra siciliani”, spiega in “I detti di Nené”, “un vero amico non deve chiedere all’altro una qualche cosa, perché non c’è bisogno, in quanto sarà preceduto dall’offerta dell’amico, che ha intuito…”. Da qui, dall’immedesimazione, le rotture terribili: “Già mettere un amico nelle condizioni di fare una richiesta indica un’amicizia imperfetta”.
 
È siciliano, palermitano, il campion mondiale di Glovo, le consegne di cibo a domicilio – pizze e panini. Lo fa da vent’anni, ha cominciato a vent’anni, per passatempo. Faceva anche il dj ma con le consegne ci guadagna, abbastanza. La voglia non manca. L’applicazione neppure.  
 
Nick La Rocca, cornettista virtuoso e bandleader, nato a New Orleans da genitori del trapanese (a New Orleans si dirigevano a fine Ottocento i siciliani di Palermo eTrapani), è l’autore di “Tiger Rag”, il brano che impose il ragtime, lo stile New Orlenas. A capo della Original Dixieland Jass Band – la parola era allora più vicina al significato originario, derivato dal francese jaser, eccitare. Jelly Roll Morton rivendicherà poi la paternità del brano, un arrangiamento, disse ad Alan Lomax, di una quadriglia francese. Ma la prima incisione di “Tiger Rag” è stata di La Rocca e la sua band.
 
Mario Praz la trovava perfetta: “Il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo. In Sicilia, il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il viaggio perfetto”.
 
La meraviglia dei viaggiatori è una costante: “Per chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.” - Cesare Brandi.
 
L’immagine della Sicilia era prevenuta e di maniera già nel 1963 per Sciascia – che pure se ne dilettava: sommerso da un profluvio di film sulla Sicilia, ammoniva (“La Sicilia e il cinema”, poi in “La corda pazza”), lo spettatore dovrebbe cominciare a chiedersi “che cosa la Sicilia non è”. L’anno successivo stroncherà Germi, “Sedotta e abbandonata”, per avere tratteggiato una Sicilia che non esisteva.
Sciascia si è detto presto infastidito dalla sicilianità, che pure aveva elogiato, seppure in forma di “sicilitudine” – “categoria metafisica, condizione esistenziale o stato antropologico dell’essere siciliani”. Nel 1964, stroncando il film di Germi, e una ricerca dell’antropologo Tentori (“Le svergognate”), lamenta una Sicilia acculata “al delitto d’onore, votata al mito della verginità”. Di cui lui, nato nel 1921, nella Sicilia “profonda”, non conosceva nessun caso. Ma non rinunciava, in altro ambito, alla “linea della palma”, che sale, sale.
 
Rieditando il “Padrino III”, per i trent’anni, Francis Ford Coppola ha cambiato il titolo, “Mario Puzo’s The Godfather Coda: the Death of Michael Corleone”, la morte di Michael Corleone, perché invaghito di un altro finale: Corleone seduto su una sedia nel cortile del palazzo, meditabondo, su questa considerazione che lo spettatore legge sullo schermo: “Quando i siciliani ti augurano «cent’anni» è un augurio per una lunga vita… e i siciliani non dimenticano”. La Sicilia come condanna a morte in vita. Ma i luoghi del “Padrino III”, sopra Taormina, sono infinitamente riconoscenti a Coppola per il film.

leuzzi@antiit.eu

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