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domenica 11 maggio 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (206)

Giuseppe Leuzzi

Tutto ‘ndrangheta
Sparano a Monaco alla più ricca del reame e, per non saper che dire, si dice sia stata la ‘ndrangheta. Che dunque non ha più buona mira? Matacena è latitante e, tra tutti, s’indaga il potente politico di Imperia-Ventimiglia, ormai enclave di calabresi, dunque di ‘ndranghetisti. Anche per l’Expo di Milano, prima della lite in Procura, non s’indagavano che le imprese edili dei calabresi, per i subappalti dei subappalti, che tutte avevano in qualche modo almeno un manovale bisnipote o triscugino di un condannato per mafia, associazione, concorso esterno in associazione. A opera del pezzo meglio di quella Procura, la giudice Boccassini.
Uno finiva per montarsi la testa, anche se subodorava un po’ di razzismo e molto menefreghismo. Dei napoletani in specie: i napoletani sono razzisti, specie se stanno a Milano, e ancora di più se giudici. Un po’ anche, certo non volendo, a copertura della grande corruzione, come tutti sanno, e sapevano – i napoletani vogliono bene a Milano.
Anche a Torino, non sembra ci siano altri malviventi, solo ‘ndranghetisti. Manca Roma, la quarta area (prima per numero: Roma è la città calabrese di gran lunga più grande), per completare la mappa dello strapotere della ‘ndrangheta, ma Pignatone ci sta pensando.
Dire tutto ‘ndrangheta è difficile, duro da pronunciare, ma il concetto è facile: tutti colpevoli nessun colpevole. Soprattutto non i colpevoli.

Federico Cafiero De Raho, il Procuratore in carica a Reggio da un anno e mezzo, non è che non abbia altro da fare. Cioè ce l’avrebbe, di questo nessuno dubita. Ma è stato molto assorbito dal compito, avendo azzerato il consiglio comunale, di impedire che se ne elegga uno nuovo.  Ora ha trovato un po’ di respiro per colpire Scajola, e questo fa ben sperare. Anche se solo della latitanza di Matacena Cafiero De Raho ha contezza, di altri no.
Lui però, come buono napoletano, forse non ha molta voglia di stare a Reggio, a differenza di Boccassini a Milano

Non siamo buoni neppure come camerieri
“Benvenuti al Sud”, spiega Alfonso Ruffo sul “Sole 24 Ore” l’altra domenica, è ora solo un auspicio. “Su 380 milioni di presenze turistiche solo il 20% (76 milioni) sceglie le località meridionali”. Peggio va con gli stranieri: va al Sud “uno striminzito 13%”, venti milioni di presenze straniere su 160.
Benché, si può aggiungere, sia stato proprio il Sud, fino a un secolo fa, l’attrazione maggiore del turismo straniero in Italia. Per la natura e la cultura, e per l’accoglienza: alberghi, ristorazione, amabilità, servizievolezza. Non siamo più nemmeno buoni camerieri.
Ci sono regioni che da sole fatturano più spesa turistica straniera di tutto il Sud messo assieme: 5,3 miliardi il Lazio e altrettanti la Lombardia, 5 il Veneto, contro i 4 spesi in tutto il Meridione.
La Sicilia per venti anni, dopo gli assassinii di Lima e Dalla Chiesa, fu un paradiso per il turista: non ci andava nessuno. Passare le giornate in solitario a Segesta, Solunto, Piazza  Armerina, la Valle dei Templi, anche allo Zingaro e a San Vito Lo Capo, o lungo l'Anapo e a Pantalica, è un privilegio inestimabile.

È Nord contro Sud perfino sugli immigrati
Arrivano con gli immigrati senza documenti, anzi istruiti a non farsi identificare, la tubercolosi, la scabbia, l’aids. Ma non si può dire: è razzismo. E siccome arrivano al Sud, in Sicilia e in Calabria, i meridionali sono razzisti.
Poi alcuni immigrati bivaccano alla Stazione Centrale di Milano, e allora è scandalo. Telegiornali, prime pagine, interrogazioni parlamentari. E non erano nemmeno molti, alcune decine. Ma bisogna nascondere gli immigrati a Milano, solo a Lampedusa stanno al loro posto. Anche a Crotone.
C’è gagliofferia Nord-Sud pure sugli immigrati. E il giornale di Milano si distingue. Che dice di ispirarsi al vescovo cardinale Martini. Col quale però, evidentemente, è morta anche la virtù della prudenza.
Se non che, come in tutte le cose, c’è anche qui un Nord più a Nord. E il giornale del cardinale manda una giornalista, Alessandra Coppola (@terrastraniera), a raccogliere la “testimonianza” di un ministro svedese: “Stoccolma riceve 1.500 richieste (di asilo) al mese, «tante quante l’Italia in un anno», ha marcato critico al Corriere il ministro dell’Immigrazione Tobias Billström”. Che non è vero. Mentre è vero che la Marina italiana salva ogni giorno 1.500 persone al largo di Lampedusa. Dov’è che non sanno contare, a Milano o a Stoccolma?

Autobio
Montanelli fa dire a Prezzolini: “Non puoi capire con quanta gioia, fin da ragazzo, varcavo il confine”. È vero, la gioia può essere grande, un modo di essere. Perché, cos’è il confine? Una lingua diversa, un modo di fare diverso, all’epoca il passaporto, il cambio, la lingua, una serie di disagi. Ma l’eccitazione e la gioia sovrastano la fatica.
Viaggiare non ha nessuna necessità, ma questa gioia ci può essere, c’è, è un fatto. Allo stesso modo, però, può operare il ritorno. Non mesto, e anzi in qualche modo entusiasmante anch’esso. Se una  distanza si è creata, comunque intermessa, allora il ritorno è anche una (ri)scoperta. Il ritorno dell’emigrato in particolare, dell’interno o dell’esterno, a distanza di anni dal distacco, può offrire la stessa gioia del viaggio oltre il confine. Come un senso di scoperta, anche se più spesso il mondo è sempre quello di un tempo, immutato. O proprio per questo: la scoperta è delle cose più vissute, dei luoghi usati, dei modi di essere, scontati, forse stantii e sempre deprecati, ma con altri occhi. L’occhio è diverso, interessato, interessante, se viene da oltre il “confine”.
Chi sta dentro non sta fuori, è caso di logica elementare. E tuttavia sì, si può stare fuori stando dentro. Si vuole (può volere) uscire perché quello è il proprio modo di essere . “Proprio” e cioè personale, familiare, di scuola o di progetto (aperto sul mondo), culturale, di mentalità, dell’epoca, ideologico anche (il progresso, la scoperta, il confronto). Bisogna rivedere i fattori dell’emigrazione, l’equazione è a più variabili – e il bisogno è forse il minore.

Al Governor’s Camp, gita disintossicante in Kenya dalle fumisterie traditrici della politica a Nairobi,  un campo su un dirupo sopra un fiume, di grandi tende con bagno privato, si può essere svegliati da un tuono ritmato, accelerato, sordo, di terremoto che cresce d’intensità. Finché contro il sole radente si stagliano dei barbagli, di aria e terra smossa, che in un angolo di ombra si precisano per quadrupedi in corsa, una mandria larga da riempire l’orizzonte, che arriva al galoppo, senza padrone, senza guida. Vanno folli, compatte, a gran ritmo le colonne di gnu, o sono zebù, gran strepito fanno mute, vanno al vento ondeggiando in una direzione o nell’altra, dietro l’improvvisato capomandria. Dietro il quale si rompono sul costone sopra il fiume, si agitano, si avventurano in discese oblique o si buttano giù, senza avere come lui calcolato, senza la stessa perizia, rompendosi i più le gambe. Un centinaio di metri più a monte, o a valle, il guado sarebbe piatto.
È la nevrosi nella sua bestialità, andare da qui a là per percorsi diretti incuranti degli ostacoli. Né la mandria ha necessità di attraversare il fiume, all’alba la quiete s’impone, i predatori non vanno a caccia, né di bere. Ma la vita animale, che sembra placida, è uguale a quella urbana, dritti di corsa, una volta preso lo slancio, verso nessuna meta.
All’imbrunire i felini carnivori sono partiti a caccia, assassini che la letteratura nobilita, ma la violenza è la stessa, irrefrenabile, del più grande che annienta il più piccolo, né c’è resistenza possibile. Si torna in Africa, è vero, alla vita naturale.
O la visione mattutina al Governor’s Camp è un’allucinazione. In Africa anche questo è facile. O solo un fatto d’insonnia, dei sensi acuminati dall’insonnia, rapidi, troppo rapidi, specie alla preluce, guatata con ansia ma anche con apprensione. La luce fresca della mattina, fredda, insonora, quella che un pittore direbbe metafisica.
Uno scrittore non sottile, un Dan Bown, ne farebbe l’epitome dell’umanità, che corre sempre più furiosa e non sa dove.  L’umanità mandria, di zebù o gnu che siano, che finisce nel burrone solo per l’ansia di correre. Correre senza limiti, senza freni, l’uno dietro e accanto all’altro, che il precipizio non vedono, per la vertigine dello sconfinato che calamita, perché fa bene ai polmoni anche se non s’addice alla libertà.
Cos’ha da fare tutto ciò, visione o sogno che sia, o allucinazione, col luogo natio non è detto. Ma con se stessi sì. È l’idea anche che tutto è permesso, del progresso che sempre  è bello e buono correndo avanti, più avanti, ma più spesso che non frana, precipita nel burrone. Lo spazio è finito, le crociere limitate. Questa nella savana africana che non ha limiti, e l’orizzonte ha vago, è percezione psichica.

Gli usi civici sui terreni comunali resistettero fino agli anni 1970, una quarantina d’anni fa. Poi una giunta di sinistra, Pci-Psi, l’unica che il paese si sia data, decise di dividere i terreni fra gli utilizzatori. Per sollevare il Comune, si disse, della gestione di un bene che era fonte di liti, e di nessuna utilità sociale. Ognuno si recintò così il suo pezzetto. Ma restarono fuori i pastori, i Papalia, i Macrì. Restarono fuori dai terreni comuni ormai recintati, e anche dai terreni demaniali, che il comune affittò a uso agricolo. Che furono anch’essi recintati. Cominciò allora una serie di “dispetti” e di “invasioni”: recinzioni abbattute, germogli devastati, cumuli di escrementi acidi desertificanti, e anche qualche incendio, forse doloso. 

leuzzi@antiit.eu

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