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sabato 9 giugno 2018

Il Pirandello inamato di Sciascia

Pirandello fu fascista. È l’unica acquisizione di questa raccolta di scritture su Pirandello e la Sicilia, e sulla Sicilia. Legnosa anche, e poco o nulla narrativa – sciasciana. Forse perché di uno Sciascia immaturo? È la riproduzione di una raccolta pubblicata nel 1961 - con l’aggiunta della commemorazione per i 50 anni della morte, nel 1986.
Tema arduo, Pirandello è la Sicilia, in parole, opere e omissioni. Che non si possono qui rivangare: il qualunquismo (contro il “sistema”, la corruzione, ma per Mussolini), la roba (il suocero costretto a reintegrare la dote che il padre di Pirandello ha dilapidato), la loicità (la non passionalità, o allora collera violenta), l’amore incondizionato per la terra d’origine, tenendosene lontano.
Sciascia non amava Pirandello. Al suo fascismo ascrive anche l’apprezzamento d Henry Ford, il discusso imprenditore americano (era antisemita mentre era socialmente impegnato per i suoi lavoratori, per l’occupazione di tutti e per le condizioni di vita delle famiglie). Ne scrisse molto, in quanto Grande Siciliano, ma senza un vero interesse, nemmeno pietas. Ne scrive in questa raccolta del 1961 come a un tiro di freccette su un bersaglio che arrotola e srotola, con dispetto, perfino sadico.
L’unica non cattiva di tutto il libro è che “il carattere origjnale che muove e spiega tutto Pirandello, è una qualità elementare, molto rara, la più rara: il candore”. Ma è di Bontempelli, in una dimenticata commemorazione di Pirandello il 27  gennaio 1937 all’Accademia d’Italia. Che Sciascia s’ingegna a demolire, acculando Pirandello al realismo – come se il realismo (verismo) non fosse, non potesse essere, candido (ma allora, direbbe Sciascia, si è ma visto un siciliano candido?)
Molto è sul rapporto tra Pirandello e Tilgher. Molto intorno al tema Spagna-Sicilia, fin dalla prima pagina. Compreso “il personaggio che parla di sé in quanto personaggio” (Américo Castro), ricondotto originariamente al “Don Chisciotte” – mentre è non isolata strategia teatrale dagli inizi, dalla tragedia greca.
Esemplare invece il saggetto su Verga, più nelle corde, ”Verga e il Risorgimento”. Di Verga che porta alla “scoperta” della Sicilia. Per primo a se stesso: “Verga inconsapevolmente portava questo popolo nel flusso della storia; ponendolo, nella luce della poesia, come «problema storico» nella coscienza della nazione e dell’umanità. (Sappiamo bene che c’era già una «questione meridionale»: ma sarebbe rimasta come una vaga «leggenda nera» dello Stato italiano, senza l’apporto degli scrittori meridionali)”. E Verga autore di romanzi storici nella vena di Manozni, e poi di Thomas Mann , di un “passato che si fa presente”. Nel solco tracciato da De Sanctis – un caso unico , “di un critico come De Sanctis che anticipi la definizione di uno scrittore come Verga”.
Un raccolta in realtà di saggi sparsi, tutti quelli che aveva fino ad allora scritto sulla Sicilia, su Pirandello e Verga, e su Navarro della Miraglia, la mafia, Domenico Tempio, i fatti di Bronte, e “Il Gattopardo”. Anche Tomasi di Lampedusa irrita SciAscia, semrpe per la pregiudiziale  politica, ma non sa non riconoscerne la qualità letteraria. Bronte racconta in breve con una vivezza e accuratezza che non si ritroveranno nei più ampii studi di Lucy Riall.
Sulla mafia ha già, 1957, la definizione che manterrà, la più articolata: “Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento, per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza”. Ma indulge ancora alla mafia vecchia, buona, e ha perfino una “mafia di sinistra”.
Il libro è in realtà “Sciascia e la Sicilia”, il primo di tanti. I saggi su Pirandello aveva elaborato, spiega nella nota alla prima edizione, per una sorta di antologia per altro editore, mirata sul rapporto tra Pirandello e la Sicilia, non sull’opera pirandelliana. Pubblica i materiali approntati “insieme con pochi altri su scrittori e cose della Sicilia”. Su Pirandello mettendo le mani avanti: “Non sono un critico di professione: e questo libro vuole essere una «notizia» della Sicilia attraverso particolari letture ed esperienze”. Allora era ancora forse peggio di oggi, bisognava dare “notizia” della Sicilia, per farla esistere.
Con Pirandello si riconcilia alla fine, nella commemorazione del 10 dicembre 1986 a Palermo. Quando lo accomuna a Kafka e Borges come la triade che ha modellato il Novecento  - Proust relegando, con Savinio, al Grande Minore, il poeta della decadenza, di una specifica, angusta, decadenza. Riconoscendo di averne trattato “scontrosamente, e anche con un certo rancore, prima”. Ma, dopo, “cordialmente e serenamente” – sbollita, va aggiunto,  la perentoria certezza politica. È che, si giustificava, “sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, e riviverli”. Radicandolo nella Sicila, e nella “religiosità”, che Pirandello rivendicava, per sé e per la sua opera. Nonché in Montaigne e, antagonisticamente, in Pascal – che invece sono riferimenti del tardo Sciascia.
Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, pp. 253 € 14


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