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domenica 23 settembre 2018

La giornata che sconfisse il sovietismo

È “una giornata quasi felice”, quella di Ivan Denisovič. Si chiude così il racconto di ventiquattro ore di obbrobrii quotidiani, minuto per minuto, gesto per gesto, strategia per strategia, di sopravvivenza, che nel 1962 rivelarono e documentarono la vita quotidiana nei campi di lavoro forzato di Stalin in Siberia, i gulag. Ai quali si veniva confinati fino al 1949 a dieci anni, poi a venticinque. Senza colpe specifiche, per la disciplina. Šuchow, Ivan Denisovic, è condannato per essere evaso dalla prigionia tedesca: accusato per questo di essersi arreso senza combattere, e sospettato di essere diventato una spia. È, o sa fare, il bravo muratore, ha elaborato tecniche personalissime per un migliore digestione della sbobba quotidiana, anche per sgraffignare una doppia porzione, e per paludarsi contro il gelo sfuggendo ai controlli delle guardie sull’abbigliamento di ordinanza, e tra queste mille astuzie il lager-gulag non gli pesa, e non pesa al lettore.

Solženycin, che l’esperienza di Ivan ha vissuto personalmente, non ne fa un atto di accusa. Cioè, l’accusa è implicita, nel fatto stesso che ci fossero campi e condanne di questo tipo. Quello che scrive è il mondo senza il sovietismo: come un prigioniero, innocente, isolato in un inferno di ghiaccio, mantenga umanità e dignità critica, seppure limitata alla sopravvivenza. È così che il racconto resta tuttora vivace, e quasi ilare. Una sorta di racconto di avventure. Anche senza la vergogna sovietica.

Nel 2006 il racconto è stato rivisto e integrato dallo stesso Solženycin. Senza i compromessi cui era addivenuto con la censura nel 1962 – il racconto, pronto nel 1960, subì due anni di trattative. La riedizione ricomprende anche, ritradotti, i due racconti che ne accompagnavano la prima edizione, ora intitolati “La casa di Matrëna” e “Accadde alla stazione di Cocetovka”. A cura e con la traduzione di Ornella Discacciati. Più cruda e più realista – meno toscaneggiate – ma anche quella di Raffaello Uboldi a caldo, nel 1963, un anno dopo l’uscita su “Novyi Mir”, era di ghiaccio.

La vecchia edizione si avvaleva di un’introduzione - anonima ma dello stesso Strada (traduttore del secondo racconto, il terzo era tradotto da Clara Coisson) - nella quale si cita a lungo Vittorio Strada come interprete critico di Solženicyn alla prima pubblicazione.  Strada ne avverte subito la sostanza e il peso – Solženycin sarà Nobel nel 1970 - richiamando Remizov e Platonov.
Il richiamo a Platonov – lo scrittore di cui Discacciati è specialista – Strada culmina dichiarando questa prima opera di Solženycin  “una delle più schiette opere socialiste della letteratura sovietica”. Ma è difficile che ci sia una “letteratura sovietica”, se non come arco temporale, a parte le macerie. “Una giornata” ne è la negazione più radicale, di una vita, una vita umana, che si svolge al di sotto e al di fuori del sovietismo. Dei regolamenti cioè e della frusta, la negazione di ogni poesia.

Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, Einaudi, pp. 290 € 20


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