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lunedì 14 marzo 2022

Chi era Pasolini 7

Sarà stato di Pasolini come di lui intravedeva Gianfranco Contini nel 1943 benedicendone - invidiabile occupazione in piena guerra, occupazione, miserie – l’impronta poetica: come “del rimpianto narcisistico … d’uno che leva un pianto continuo sulla sua morte”. Che non è propriamente un complimento, è come certificare un’adolescenza attardata, ma è un’anamnesi forse perfetta.
Ci sono due Pasolini. Uno è quello delle stitiche conferenze sulla lingua e i dialetti, in falsetto con Moravia nelle Case della cultura e ai Lunedì delle signore, prima del fatidico Sessantotto. Delle nasalità di cui è farcito “Ragazzi di vita” - l’opposto del dialetto, che è carnale per essere tribale. Del birignao alle promozioni:
- Utilizzerà la musica nei suoi film?
- Solo Bach. Solo quella è musica. - Quale Bach?
- Che ruolo attribuisce alla parola nel cinema?
- Il dialogo è suono di fondo.
Una conferenza peripatetica sulla lingua basata su reperti del tipo: Citati che sentì “esatto” invece che “sì” quella volta che prese il treno; col corredo del Bel Paese dove il sì suona; Calvino che in commissariato ascoltò il verbale, quella volta che gli rubarono la macchina; il prontuario Rai delle parole da evitare; Moro che infligge se stesso.
Un letterato come tanti. Un po’ cattivo e anche acido, come la professione si vuole. Ma con cattiveria. Non tanto per le solite, ovvie, polemiche tra scrittori – nel suo caso poeti: Montale, Sanguineti, Fortini. Per astiose condanne. Gli scrittori e i critici mobilitati per lo speciale “Pasolini” del settimanale “Robinson” hanno tutti delle riserve caratteriali, malgrado i toni incensatori. Lasciò l’editore Garzanti, che lo aveva promosso e imposto, senza preavviso e senza discussione, per passare a Einaudi, giustificandosi col fatto che pubblicava Bevilacqua – motivazione da puzza al naso, ammesso che fosse quella vera (con Bevilacqua si frequentavano i primi tempi a Roma, insieme andavano a trovare Caproni, ricorda Silvana Caproni, figlia di Giorgio). Di Quasimodo, tanto amato agli esordi, disse e scrisse con disprezzo – Pasolini occupa buona parte del libro di Plinio Perilli, “Quasimodo: dal Nobel alla gogna senza fine”. Salvo chiedergli nel 1959 il voto allo Strega, per “Una vita violenta” – il premio andò al “Gattopardo”. Quando a fine anno Quasimodo ebbe il Nobel, Pasolini non si evitò il dileggio: “Prima del Nobel c’era su di te un silenzio sepolcrale: / oggi di te un po’ si parla: ma solo per dirne male”. E poco prima della morte, su “Gente” del 17 novembre, 1975, alla domanda sui grandi poeti puntualizzava: “In Italia il più grande è Sandro Penna, mentre uno dei peggiori è Salvatore Quasimodo”.
A Calvino, in aggiunta alle scaramucce letterarie, imputò dalla sua tribuna sul “Mondo” il delitto del Circeo: “Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi” - mentre rubava la scena alla sopravvissuta, la povera Colasanti.
Contro Carlo Casalegno, il vicedirettore della “Stampa” che poi sarà assassinato dalle Br, ebbe l’accortezza di non pubblicare un feroce frammento (che gli eredi pubblicheranno negli “Scritti corsari”…), che lo dice più odioso del “miserabile fascista di dieci anni fa”, uno sconosciuto che il poeta ricorda di avere inseguito per un buon quarto d’ora attraverso tutta San Lorenzo tanto il suo sdegno era inesausto. A Casalegno Pasolini imputa, per un articolo sulla “Stampa” contro di lui e Moravia, “la mania che ha preso gli italiani di darsi continuamente dei fascisti tra di loro”. Mania che però egli stesso aveva avviato qualche mese prima sul “Corriere della sera”, con “Il fascismo degli antifascisti”. Con leggerezza, certo, alla Pannella, alla Ottone, i vaffanculisti dell’epoca, certo tirati ai quattro pizzi, sobri, inappuntabili. Molto borghesi.
Non fece scuola, malgrado gli inizi a Casarsa, non patrocinò nessuno, diversamente dai contemporanei Moravia, Morante, Bertolucci naturalmente, Bassani, così deprecato e così “utilizzato”, Calvino, munifico editor, Citati, perfino il ritroso Gadda – solo Franco Citti, per un solo film. Franco Fortini, che pure non gli era nemico, lo voleva “il poeta nuovo della nuova borghesia della cultura di massa” – fulminandolo con un “La mia prigione\ vede più della tua libertà”.
Il “Vantone” invece, che ricavò dal “Miles” di Plauto per Enriquez e gli altri Quattro, è stato due ore di sballo all’anteprima alla Pergola, una serata di teatro quale si favoleggia negli annali, che lasciò gli stessi attori accasciati sul proscenio dalle risate, incapaci di finire le battute. Grande filologo sarebbe stato, di potenza, disinvolto, disincantato. E favolista al modo di Boccaccio, Chaucer e le “Mille e una notte”, o degli amati sconvenienti borgatari. Ne fece una parentesi, e fu poeta sentimentale. Che è un mettersi da parte e vedere passare la vita, lo sdegno resta finto e l’accoramento. Ci sono già nelle “Lettere luterane” i giovani “votati alla morte”.
(continua)

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